L'ostetrica del piccolo ospedale di Forks era stata veloce ed efficiente.
-Si sdrai pure, Mrs. Cullen. A proposito, mi saluti Carlisle quando lo vede. Ho lavorato per un po' nella sua équipe, è una persona fantastica.-
-Così va bene? -Si, ora ferma... Ecco il battito... forte e regolare, come sempre.-
Alzò il volume del piccolo ecodoppler che aveva posato sul mio pancione, sporgente come una montagna tonda e lucida.
Tump tump tump tump tump.
Ciao, piccolino. Allora ci sei e va tutto bene, vero?
Il controllo aveva solo confermato quello che era già evidente: stavo davvero bene, il piccolo cresceva regolarmente e non c'era niente di cui preoccuparsi. La mia pancia lievitava a vista d'occhio, facendomi sembrare ogni giorno di più la Statua Vivente alla Maternità (come mi piaceva pensare) oppure il Monumento alla Balena (come diceva Emmet).
Comunque, né le sue continue battute né la mia crescente goffaggine intaccavano la sensazione di benessere costante nella quale nuotavo, come in un'onda lunghissima.
Tentavo di descriverla a me stessa, questa sensazione, e mi venivano parole ed immagini luminose: pienezza, fioritura, abbondanza, maturità. Come il grano dorato dei campi in agosto. Come i campi verdi e immensi del foraggio estivo, che si vedono nelle nostre pianure. Era fine febbraio, l'orribile piovoso febbraio di Forks, ma nella mia nuvola dorata era senza dubbio un'estate rigogliosa, che aveva l'unica pecca -non per me, per chi mi stava intorno- di accentuare ulteriormente il mio strano isolamento, dove solo ad un piccolo sconosciuto era permesso farmi compagnia.
Per loro pioveva e il cielo era grigio; per noi due c'era sempre il sole.
Confesso che non provavo sentimenti particolari per la creatura che occupava sempre più spazio in me. Non quelli che immaginavo dovessero essere i sentimenti devoti di una mamma in attesa, felice di essere tale. Io non riuscivo neanche a immaginarmelo, il piccolo. Una volta forse, tanto tempo prima, me lo ero rappresentato come una specie di... Edward in miniatura; l'immagine che mi ero costruita aveva a che fare con qualcosa di assolutamente astratto e con
l'innamoramento travolgente dei primi tempi insieme. Ora che percepivo il suo piccolo corpo muoversi, sapevo che avrebbe avuto una vita, una faccia e una personalità tutte sue. E mi chiedevo: gli piacerò? Mi piacerà? Andremo d'accordo noi due?
Pensavo a lui come ad una piccola persona che un giorno avrei conosciuto; e mi chiedevo se saremmo diventati amici.
Il mio corpo mi mandava il messaggio che stavo creando una vita, e una volta tanto sentivo anch'io di essere parte di qualcosa di magico. Nella mia leggenda, però, non c'erano vampiri né mostri di alcun genere; c'erano solo tante madri, o una sola Madre che si ripeteva in ogni donna.
Il mondo mi sembrava pieno di donne incinte e vedevo pancioni ovunque, sentendomi vicina ad ognuna di quelle donne come ad una sorella. Pur non comprendendo ancora tutto, vedevo Renée con occhi nuovi. La immaginavo giovane, diciottenne, dolcemente appesantita dal pancione nel quale io avevo nuotato, e provavo per lei una tenerezza speciale ed inattesa.
Ero bella, lo vedevo nello specchio e negli occhi di tutti quelli che mi guardavano; ma vedermi finalmente bella non era nulla a confronto di quel dono di salute e prosperità che avevo ricevuto.
Il mio piccolo inquilino ci teneva a dimostrare quanto anche lui si sentisse in forma. Scalciava come un ballerino, a intervalli regolari, cogliendo al volo le occasioni più disparate: assaggio di cioccolato, passeggiata a piedi, passeggiata in macchina, canzone allegra, canzone lenta, musica country, classica o rap. Avevo concluso che non c'era correlazione: scalciava solo per il gusto di farlo. Alive & kicking.
Tump tump tump tump tump tump.
Sapevo già che lui (o lei) c'era e che stava bene, ma quel suono non finiva mai di riempirmi di stupore. Un altro cuore in me.
Non avevo nient'altro di lui, o lei, se non quel battito, perché vedere qualcosa era impossibile.
Non c'era una sola ecografia in cui si distinguessero delle forme precise. Le altre mamme che incontravo ai controlli commentavano estasiate le prime “foto” dei loro bambini: quasi tutte sapevano il sesso, riconoscevano profili e somiglianze, sapevano se il piccolo era longilineo o tarchiato e se sarebbe stato minuto o robusto alla nascita.
Invece il mio pancione, ovviamente, produceva solo immagini nebulose, poco più di quello che il mio cervello comunicava a Edward. Niente di leggibile. E nemmeno Alice vedeva nulla; fatto, questo, che mi lasciava fredda di paura ogni volta che me ne ricordavo.
Non potendo farci niente, cercavo di non pensarci.
Comunque il medico, che a volte era Carlisle stesso, riusciva a prendere qualche misura da cui sapevamo che il feto cresceva bene; ma non era stato possibile vedere, per esempio, qual era il sesso e se gli organi interni c'erano tutti ed al posto giusto.
Carlisle ipotizzava che le membrane fossero più spesse del normale, per via della straordinaria densità della pelle dei vampiri. Fortunatamente, gli altri medici che occasionalmente mi visitavano, quando lui non era di turno, continuavano a bersi le spiegazioni -non so nemmeno quali- che mio suocero gli propinava, e non facevano più domande.
Dopo neanche mezz'ora eravamo fuori dall'ospedale e mio marito mi apriva premurosamente la portiera della Guardian.
-Edward, passiamo da Charlie?-
-Non se ne parla nemmeno, Bella. Sei stanca, devi andare subito a casa e sdraiarti un po.'-
Lo aveva fatto ancora.
Adesso che conoscevo il meccanismo, che ne ero diventata consapevole, lo identificavo subito e percepivo il momento esatto in cui mi gelavo e cominciava a crescere la rabbia.
La prima volta era accaduto un pomeriggio di qualche settimana prima. Tutta la famiglia era radunata nel salotto a piano terra di casa Cullen, congelata in una scena che ormai conoscevo tanto bene da poterla dipingere.
I miei nuovi parenti si sentivano assolutamente liberi di essere se stessi anche in mia presenza, e non mettevano nemmeno più in scena quella meticolosa finzione che doveva servire a dare loro una parvenza di umanità, fatta di respiro, piccoli movimenti, tic nervosi accuratamente studiati. Erano immobili, liberi nella loro vera natura di vampiri, e parevano tante meravigliose statue, rappresentanti ciascuna un'attività domestica.
Carlisle come al solito leggeva, Esme al tavolo esaminava i rotoli di alcuni progetti, Edward era al pianoforte e suonava muovendo solo le mani, dello stretto necessario. I miei cognati giocavano a qualche gioco di società che non conoscevo, seduti ad un altro tavolo. Io sonnecchiavo accoccolata contro il bracciolo del divano, coperta da un morbido plaid bianco, e rileggevo per la terza volta la ricetta del vero ragù italiano su un libro di cucina che mi aveva regalato mio padre. Chiedendomi, di tanto in tanto, a cosa mi sarebbe servito cucinare il ragù, visto che prima o poi sarei diventata una vampira, e del ragù non me ne sarei fatta nulla, né io né gli altri Cullen. Il piccolo, forse...
Ad un tratto Carlisle, come colpito dal ricordo di un impegno dimenticato, aveva rotto il silenzio. -Mmm... bisognerà pensare al parto di Bella, prima o poi. Dovremo prendere delle decisioni.- Edward aveva smesso di suonare.
-Cosa pensavi di fare, Carlisle? Deve partorire qui a casa, o in ospedale, o dove?-
-Figliolo, se tenessimo in considerazione solo le condizioni di salute sue e del bambino, probabilmente potrebbe partorire dove vuole, perché sta andando tutto alla perfezione. Il fatto è che non sappiamo niente della natura di vostro figlio...-
Provavo una curiosa sensazione di stupore nel sentire qualcuno parlare di mio figlio, quando io stessa non riuscivo ancora ad usare quelle parole.
Carlisle aveva guardato Edward negli occhi. Ora erano entrambi preoccupati.
-E se... appena nato avesse bisogno di sangue? Non una trasfusione, intendo.-
I miei seni, che erano esattamente raddoppiati di volume dall'inizio della gravidanza, lasciavano presagire qualcosa di diverso. Tuttavia non dissi nulla e continuai ad ascoltare.
Intervenne Esme. -E' davvero difficile... In ospedale potrebbe avere tutto ciò che serve, anche nel caso di un'emergenza. Ma in effetti, se dovessimo dare da bere al bambino come si potrebbe fare?-
-Beh, Bella dovrebbe avere una camera privata e noi potremmo portare dentro tutto quello che vogliamo. Anzi, possiamo affittare tutto il piano per la mia sorellina!-aveva riso Emmet.
-Si.... Questa è una buona idea. Potrei anche decorare degnamente il tutto, se avessimo un piano riservato a noi...- Questa era Alice.
-Invece io credo che sarebbe meglio partorisse qui a casa Cullen. Immaginate soloche cosa potrebbe capitare, se per sbaglio qualcuno scoprisse che stiamo dando al bambino un biberon di... B+!-
Emmett aveva riso fragorosamente alla battuta di Rose, e questo aveva dato il via ad una chiacchiericcio divertito su tutto quello che sarebbe stato necessario preparare per avere a disposizione "la pappa" per il bambino. L'immagine di un neonato -putacaso, appena partorito da me- che succhiava soavemente un biberon rossastro mi apparve davanti agli occhi rivoltandomi lo stomaco.
Li osservavo da un po', e ad un tratto realizzai che nessuno si sarebbe voltato verso di me.
Parlavano come se io non fossi stata presente.
Stavano organizzando la nascita del bambino che io portavo in grembo, davanti a me, senza chiedermi niente.
E quel che è peggio, Edward discuteva con loro e prendeva decisioni su di me assieme a loro.
Il ricordo di un'altra scena mi portò indietro nel tempo. Una sera avevo deciso di andare a trovare un amico per tentare di risolvere un po' delle nostre incomprensioni, e Edward aveva manomesso il Chevy per impedirmi di andare.
Un'altra volta, ero stata praticamente sequestrata ed affidata ad Alice perché non gradivano che frequentassi i licantropi di La Push, anche se io ero assolutamente certa, e lo avevo ripetuto decine di volte, che non correvo nessun vero rischio. E parlavo a ragion veduta, perché c'era qualcuno che mi avrebbe protetta a rischio della propria vita, se necessario.
Per non parlare del mio matrimonio, che Alice aveva organizzato secondo il suo gusto in tutto e per tutto. Per lei era normale ignorare le mie preferenze; ero certa che mi volesse bene e che non lo facesse con cattiveria, ma ero altrettanto certa che non mi reputava in grado di scegliere da sola nemmeno che pantaloni infilarmi la mattina.
Alice mi aveva organizzato feste che non volevo, fatto regali che non mi interessavano, rivelato cose che non volevo sapere e rivelato ad altri cose che mi riguardavano senza mai chiedermene il permesso.
Continuavano a chiacchierare e a fare piani che mi riguardavano, escluso Emmet che aveva acceso la televisione.
E io, io dov'ero?
Ricordai che nessuno di loro si era fatto il minimo problema a chiamare “cane”,”bastardo” o peggio il mio migliore amico, davanti a me.
E, la peggiore di tutte.
Ricordai quando Edward aveva deciso che la cosa migliore per me era lasciarmi.
Mi aveva abbandonata ad un dolore lancinante, decidendo al mio posto che vita avrei dovuto vivere.
Mi tornarono in mente tutte le mille volte in cui avevano deciso, fatto, organizzato, stabilito qualcosa senza minimamente interpellarmi. Non chiedevo, non avrei mai chiesto di avere voce in capitolo su questioni che riguardavano la loro vita -anche se a rigor di logica, essendo ora la moglie di Edward, avrei potuto quantomeno esprimere un parere. Ma ora stavano andando oltre e questa percezione stridette sui miei nervi come il gessetto rotto sulla lavagna, svegliandomi bruscamente.
Io, solo io gli avevo sempre permesso tutto questo. Io e nessun altro.
Solo che ora non si trattava più solo di me.
Questa consapevolezza mi colpì con la potenza di un fulmine nella foresta.
-Disturba qualcuno se anch'io esprimo un parere?-
Avevo parlato al primo varco di silenzio che si era aperto nelle loro chiacchiere. Li avevo guardati con una freddezza di cui nemmeno io mi sarei mai creduta capace. Con cattiveria. Con durezza. Come se avessi capito che era necessario, che dovevo fare appello a tutte le mie forze, perché stavolta c'era in ballo qualcuno di molto, molto più importante di me.
-Mio figlio nascerà all'ospedale di Forks- avevo detto, lentamente e a voce bassa.
-Credo che vi ricordiate tutti che cosa è successo qui l'ultima volta che ho perso un po' di sangue. Un parto può essere un evento molto sanguinoso.-
Mi sentivo svenire mentre ci pensavo, ma continuai.
-Nascerà in ospedale. Se ne avrà modo e gli farà piacere, sarà presente solo Carlisle. E se qualcun altro vorrà essere lì, aspetterà in sala d'attesa.-
Vidi sette paia di occhi fissarmi sbalorditi... ma non era nulla al confronto di quanto io fossi sbalordita da me stessa.
-Bella, amore...- cominciò Edward. Avevo già le scarpe addosso. Ero uscita, avevo preso la Guardian e avevo guidato fino a Port Angeles, finché, sbollita la rabbia, mi ero sentita pronta a tornare a casa.
Di tanto in tanto, a causa della pessima abitudine che io stessa gli avevo dato fin dal principio -e, sospettavo, anche a causa di una certa presunzione- Edward si comportava come se quel pomeriggio non fosse successo nulla, e ricominciava a trattarmi come una persona incapace di intendere e volere. Ma qualcosa era cambiato irreversibilmente, e continuava a cambiare man mano che la mia pancia cresceva e il giorno del parto si avvicinava.
-Edward, se non hai voglia di venire da Charlie, prendi la Guardian e vattene a casa. Io vado a trovare mio padre. Mi accompagnerà lui più tardi. Ok?-
Stavo imparando a fare quello che ritenevo giusto e perfino quello che mi piaceva, qualche volta. Ma ero certa che non si trattasse di egoismo, e proprio per questo mi sentivo più forte, con la forza di una ragione che fino a prima della gravidanza mi era sconosciuta. Semplicemente, volevo che questo bambino avesse una madre di cui potersi fidare.
Edward più di altri faceva le spese di questa novità, come in quel momento. Ero certa che il mio costante estraniamento, unito a questa durezza sconosciuta, stavano lentamente appannando l'immagine che si era fatto di me. E io non potevo farci assolutamente niente.
Mi pentii di essere stata così sgarbata.
-Dai, vieni anche tu. Beviamo un tè insieme, e ce ne andiamo a casa presto.-
-Come vuoi- aveva sibilato, comunque irritato, e pochi minuti dopo eravamo in vista della mia vecchia casa.
Mentre percorrevo il vialetto che conduceva alla porta di Charlie, il malumore era già svanito e sorridevo di tenerezza.
Non so se questo avesse a che fare con la gravidanza, ma non mi sembrava troppo vedere mio padre anche tutti i giorni. Il mio papà, che potevo ancora frequentare senza metterlo in pericolo, e che potevo abbracciare senza timore di dissanguarlo in preda alla sete incontrollabile dei neonati.
Il mio adorato papà che però, mesi prima, mi aveva lasciata di sasso -tipo vampirizzazione espressa- con la sua reazione alla notizia della mia gravidanza.
Come al solito non c'erano state troppe parole fra noi.
-Papà, ti dobbiamo dire una cosa.-
Charlie, sprofondato nella poltrona, si era strappato faticosamente alla sua partita di baseball e si era voltato verso me ed Edward, che sedevamo sul divano e fingevamo di sfogliare una rivista.
-Eh? Ditemi pure, ragazzi.-
-E' una cosa... ehm, importante. Papà...-
Esitai. Per essere più precisa, mi paralizzai completamente.
-Tranquilla, Bella. Vi siete già sposati, cosa potreste mai dirmi di più sconvolgente?- aveva proseguito con un mezzo sorriso.
Poi, lentamente, la sua faccia aveva cambiato colore: paonazzo, poi di nuovo roseo, poi pallido. Si era risposto da solo.
-Sei... ah, sei... urgh...- Un respiro profondo.
-Sei...- Non riusciva proprio a tirare fuori quella parola, manco avesse una spina di pesce in gola.
-Si, Charlie. Bella è incinta. Stai per diventare nonno!-
Edward aveva misericordiosamente terminato la frase, con garbo impeccabile, senza però riuscire a contenere tutto il suo orgoglio e la sua felicità. Ed io ero pronta ad abbracciare un Charlie tremante ed emozionato. Magari anche ad asciugargli qualche lacrima.
-Ah. Bene!-
Pausa.
Ancora pausa.
E ancora pausa. Troppo lunga.
-Papà?-
-Mmm, sì. Penso che dovremmo festeggiare.-
Si era alzato con molta, molta calma per andare a prendere qualcosa in frigo.
Allora mi ero alzata anch'io, in preda ad un'incontrollabile voglia di andarmene. Non leggevo nel pensiero, ma con mio padre non ce n'era bisogno: aveva un display luminoso sulla fronte, sul quale in quel momento scorrevano, scritte a caratteri cubitali, le parole: “Non sono per niente contento, non più di quando mi hai detto che ti sposavi con questo tipo strano a diciotto anni. Tuttavia, visto che sei la mia unica figlia e non ti voglio perdere, farò buon viso a cattivo gioco”.
Lui non avrebbe mai usato tutte queste parole, ma il senso era questo e io non avrei potuto leggerlo più chiaramente.
Uscire sbattendo la porta mi avrebbe fatto molto bene, ma mi feci passare il nervoso; non volevo perdere mio padre.
Non che questa stupidaggine mettesse a rischio il nostro rapporto, ma non sopportavo di avere con lui nemmeno un piccolo disaccordo, non in quel momento.
La serata era finita molto presto, ma senza ulteriore disagio per nessuno.
Avevamo bevuto la nostra tazza di tè in un tranquillo silenzio, rotto solo dal borbottio del notiziario della CNN.
Era quasi buio, e ora avevo quasi voglia di tornare a casa Cullen per cenare e andarmene a letto.
-Edward, amore, ti va di andare a casa?-
Mio marito era uscito per andare a prendere la Guardian parcheggiata poco lontano. Ci avrebbe messo qualche minuto a tornare, per non lasciar intuire a Charlie la sua straordinaria velocità. Mio padre mi aiutò ad infilare il giubbotto e mi aprì la porta.
Si fermò un passo prima della soglia.
-Bella, amore. Tutto bene?-
Bella, piccola mia.
Lo sai quanto ti voglio bene, vero?
Non sono mai stato bravo con le parole, sono solo un poliziotto di provincia, e per anni in casa mia non ho parlato neanche con me stesso.
Mi piace andare a pesca perchè i pesci stanno zitti. E anche Billy parla pochissimo, e anche Harry Clearwater non era un chiacchierone. Mi manca tantissimo, Harry.
Se fossi bravo con le parole, forse tua madre non sarebbe scappata da me e forse sarei riuscito a dire a Sue quello che sento. Meno male che anche lei fa parte della banda: parla ancora meno di me, ammesso che sia possibile.
Lo so che non ce l'hai con Sue, e so che sei contenta che qualcuno oltre a te mi sopporti. Ma perché te ne vai subito quando la trovi qui? E lo stesso se c'è Billy?
Che stai bene, fisicamente intendo, lo vedo anch'io.
Ma sei come... inaccessibile. Di tanto in tanto sei perfino dura, con tuo marito, con me. Con chi ti viene troppo vicino. E' come se tu fossi zona militare, circondata da cartelli di divieto d'accesso. State alla larga, pericolo.
Sei stata così.. così chiusa solo in un periodo, e adesso non voglio neanche ricordarlo, ancora ci sto male.
E poi, Bella, te lo devo proprio dire.
Perché non mi chiedi mai di Jacob?
Non lo vedi anche tu quanto è strano?
Non posso chiederti niente direttamente e non posso neanche dirti che conosco la risposta.
So che se ti dico questa cosa, adesso, tu varchi quella soglia e non ti vedo più. Non chiedermi come, lo so e basta, ci scommetterei su qualcosa di importante.
Io lo so che tu vuoi bene a Jake, e se non mi chiedi di lui è perché ti sforzi di non farlo, e se ti sforzi di non farlo è perché c'è qualcosa che non va. E io non ci capisco niente, perché sei tu che lo hai respinto.
Jacob è sparito da mesi e non abbiamo la più pallida idea di dove sia. Billy è invecchiato di dieci anni da quando lui se n'è andato e tu che sei sempre stata gentile con tutti non mi chiedi mai di loro.
Non sei più andata a La Push, non senti più nessuno, non parli neanche con Seth che è amico di tuo marito.
Come faccio a non preoccuparmi? Sono un poveraccio, ma non credo di essere del tutto idiota.
Mi si arrotolano le budelle a vederti con questo pancione, tesoro mio.
Non è esattamente quello che sognavo per te quando eri bambina.
E' troppo presto, per tutto. Tu non lo sai ancora quanto può essere beffarda la vita.
Ma se sei felice per me va bene, tu non sei me e te la caverai sicuramente meglio, in tutto.
Mi va bene qualunque cosa: purché ti veda felice, però.
Come faccio a dirti tutte queste cose? Senza che tu mi mandi al diavolo intendo.
Bella. Sei felice, bambina?
E' tutto quello che voglio sapere.
-Certo che va tutto bene, papà. L'ha detto anche l'ostetrica, oggi. E' tutto perfetto, come dovrebbe essere. Forse anche di più.- Attento a quel che dici, papà.
-Allora va bene.
-Bene.-
-'Notte, Charlie.-
-'Notte, ragazzi. A presto.-
Era rimasto sulla soglia a guardarmi raggiungere la Guardian e salirvi, mentre io mi chiudevo di nuovo nel mio scrigno di nebbia dorata.
Disclaimer
In questo blog pubblico le storie che ho scritto io ispirandomi ai libri della saga di Twilight di Stephenie Meyer. Quindi tutti i personaggi sono di zia Steph, che ringrazio per avermi fatta sognare come se avessi ancora quindici anni. Ogni tanto prendo anche dagli omonimi film della Summit Entertainment, secondo quello che mi serve ai fini della storia. Idem per certe battute dei protagonisti. Se le trovate uguali, è ovvio che le ho prese dai libri o dal film! Quindi tutti i diritti spettano ai legittimi proprietari del copyright. Le storie invece sono mie, ma potete riprodurle se citate la fonte, che deve essere questo blog oppure il sito EFP dove le pubblico con il nickname jakefan. Fatevi un giro su EFP, è davvero simpatico.
mercoledì 10 novembre 2010
4. E' tutto perfetto, Charlie Swan
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