In piedi, alla luce rossa del lume, i lunghi capelli neri sulle spalle,
il coltello al collo e il capo cinto da una ghirlanda,
avrebbe potuto essere facilmente scambiato
per la divinità di una leggenda della Jungla.
-Figlio- disse alla fine con occhi pieni d'orgoglio
-Ti ha mai detto nessuno che sei il più bello tra gli uomini?-
Messua rise sommessamente di felicità. L'espressione del suo volto le bastava.
-Allora sono stata la prima? E' giusto, anche se accade raramente, che una madre possa dire al figlio certe cose.
Tu sei molto bello... Mai ho posato gli occhi su un uomo come te-
-Torna!-gli sussurrò, -Figlio o non Figlio, torna, perché io ti amo. -
(Rudyard Kipling, La Caccia di Primavera
Il Secondo Libro della Jungla) **
il coltello al collo e il capo cinto da una ghirlanda,
avrebbe potuto essere facilmente scambiato
per la divinità di una leggenda della Jungla.
-Figlio- disse alla fine con occhi pieni d'orgoglio
-Ti ha mai detto nessuno che sei il più bello tra gli uomini?-
Messua rise sommessamente di felicità. L'espressione del suo volto le bastava.
-Allora sono stata la prima? E' giusto, anche se accade raramente, che una madre possa dire al figlio certe cose.
Tu sei molto bello... Mai ho posato gli occhi su un uomo come te-
-Torna!-gli sussurrò, -Figlio o non Figlio, torna, perché io ti amo. -
(Rudyard Kipling, La Caccia di Primavera
Il Secondo Libro della Jungla) **
- Vengo... se mi dici una cosa.- Didi si soffiò il naso.
- Quello che vuoi. Però smettila di piangere. Vieni, mettiti questa sulle spalle...- La avvolse in una coperta che stava sul divano, e la guidò fuori dalla porta, sul patio. La luna era bella in un modo sconvolgente, di una bellezza che per un attimo le fece di nuovo bruciare gli occhi. Scesero lentamente lungo il sentiero, e i passi di lui erano stranamente silenziosi.
- Hai ragione, Jake, è bellissimo. Ma...
-... ma adesso parliamo, lo so. Ascolta, Didi...
- No, ascolta tu. Voglio sapere come hai fatto, Jacob. A sentire tutto, a sentire... me. E voglio saperlo adesso. Beh, che c'è?
Si era fermato di colpo e se lo trovò davanti, con gli occhi fissi nei suoi e le labbra strette, la mascella contratta. La riavvolse nella coperta scivolata di fianco e le afferrò le spalle.
- Non ti bastano le mie scuse?
Didi era una che andava sempre fino in fondo, una vera rompicoglioni, come diceva Judith. Una che leggeva subito l'ultima pagina dei libri per sapere come andavano a finire, e poi però li rileggeva dall'inizio. Apriva i regali in un decimo di secondo, riducendo la carta a brandelli. Una che amava la sua migliore amica perché non le risparmiava niente, e tra sapere e non sapere preferiva sempre farsi del male.
- Le scuse che non mi hai fatto? No. Voglio la verità.
- Ascoltami bene. Forse è vero che ti devo una spiegazione, ma dopo... dopo le cose cambieranno. Fidati, è meglio se lasciamo perdere.
- Te la stai facendo sotto?
- Dio santo, puoi smettere di fare la superdonna un attimo? Non ti basta se ti dico che mi dispiace?
- Cazzo, Jacob, devo farti un disegno? Mi hai sputtanata in una maniera devastante! Mi hai fatta sentire la donna più ridicola, stupida e patetica sulla faccia della terra! E brutta, e vecchia, e finita! Mi hai detto la cosa più crudele che potevi dirmi, manco mi avessi letto nel pensiero!
Didi non aveva ancora capito come potesse la sua espressione cambiare tanto in fretta, come il tempo in montagna d'estate, quando una nuvola all'improvviso passa davanti al sole e ti fa gelare il sudore addosso.
- No, io quello non lo so fare. Ma quello che ti è successo era molto chiaro lo stesso - sogghignò.
Ride. Lui ride.
- Bastardo! Va bene, tieniti pure i tuoi segreti da prestigiatore e le tue cazzo di spiegazioni e vattene affanculo, hai capito? Non ti voglio più vedere! Vattene via!
- No, adesso mi ascolti tu. E smettila di urlare.
Dovette sollevarla un pò e afferrarle i capelli per chiuderle la bocca con la sua, e poi sostenerla mentre le gambe di lei cedevano.
Non fu sufficiente, perché caddero per terra insieme, e dopo Didi sentì solo che non poteva respirare nè parlare, perché la bocca di lui non glielo permetteva, che le loro gambe fasciate dai jeans si annodavano, e che una mano bollente premeva sulla sua schiena.
Fu lui a staccare le labbra e a parlare di nuovo.
- Può andare, come prova che dicevo cazzate, oggi?
Non era semplice annuire con la testa nella mano di lui, ma Didi fece segno di sì, stordita.
- Adesso vieni con me in un posto e mi ascolti?
Sì.Annuì stringendo le labbra.
- Ti spiace se ci andiamo a modo mio? Tanto, tra poco...- Lasciò morire le parole in un sospiro. Sembrava serio, preoccupato.
- Quello... quello che vuoi.
La sollevò tra le braccia e riprese il sentiero che portava in cima alla collina, mentre lei sbigottita constatava che l'aveva tirata su con la stessa facilità con cui sollevava Nessie, e respirava tranquillamente come stesse passeggiando a piedi nudi su una spiaggia.
Erano arrivati al culmine della rotondità del colle. La condusse sotto l'unico albero alto, un pino centenario i cui aghi avevano formato, tra le radici, un tappeto soffice ed asciutto, un cerchio bruno riparato dai rami più bassi, dove la neve e il gelo non erano riusciti ad arrivare. Benché fossero anni che non ci metteva piede, Didi riconobbe quel posto, l'unico sufficientemente alto per vedere le colline che circondavano la casa, il frutteto, e poi giù fino alla strada e oltre.
Ora non sembrava lo stesso luogo, perché la valle sotto la luna splendeva di una luce magica, azzurrata dalla neve. Anche il tetto della sua casa, qualche decina di metri più in basso, appariva irriconoscibile e fatato.
- Ho capito perché mi hai portata qui. Come si fa a restare incazzati davanti a... a questo?
- E' bello, vero? Dove abitavo io c'era la spiagga. Sono posti dove si riesce a guardare lontano. E poi, è un trucco, no? Porti una ragazza in un posto freddo, così poi la puoi abbracciare con la scusa di scaldarla - sghignazzò Jacob, e poi si sfregò gli occhi come per cancellare qualcosa.
- Allora io sarei destinata a morire congelata. Uccisa dal registro dell'anagrafe.
- Piantala, Didi. Adesso vorrei dirti delle cose io, ma se non la finisci con questa storia mi tocca baciarti di nuovo.
- No, per carità. Sto zitta.
Jacob sedette dietro di lei, circondandola con braccia e gambe. Il freddo era pungente, ma Didi avvertiva un calore febbrile provenire dal corpo del suo compagno, tanto da poter percepire la pelle di lui attraverso la pesante camicia e poi la coperta. In un attimo si riscaldò e stette meglio, anche se le lacrime si erano solo nascoste nella sua gola e sembravano attendere un pretesto per correre di nuovo fuori.
- Bruci, Jake. Hai la febbre?
Lui non rispose subito, limitandosi a sorridere tristemente.
- Va bene, da qualche parte dovrò pure cominciare.
Didi aveva ormai imparato che Jacob, quando doveva dire qualcosa di importante, prendeva la rincorsa respirando a fondo. Lo sentì distintamente cercare la forza di parlare, e rimase silenziosa e sospesa, in ascolto.
- Mi chiamo Jacob Black... Va beh, questo lo sai già. Sono Quileute, e fino a pochi mesi fa sinceramente questo per me non voleva dire molto. Mio padre è una specie di capotribù. Alcuni di noi, appartenenti a una certa discendenza, hanno... abbiamo delle caratteristiche particolari, che secondo le leggende servivano a difendere la tribù dai nostri nemici. Il calore della mia pelle è una di queste stranezze, per me 42, anche 43 gradi di temperatura del corpo non sono febbre, sono normali. Sono più forte di un uomo normale, corro molto velocemente e... sento e vedo cose che voi... che normalmente uno...
- Jake.
- Sì?
- Mi sgozzerai sotto il prossimo albero e dovranno cercare il mio corpo con i cani?
Lo sentì trasalire.
- Didi! Non sono pazzo, non hai visto e sentito da te certe cose? Perché non mi credi? Non credi a te stessa?
- Mi stai raccontando delle favole. Superman, l'Uomo Ragno e compagnia. Non è possibile, e basta.
- "Non è possibile" è una frase che dovresti cancellare dal vocabolario, credimi. Ok, guardami bene. Scusa, devo aprirmi la camicia.
Slacciò tutti i bottoni scoprendo le spalle e il petto, poi raccolse due pietre da terra, e con una colpì l'altra riducendola in schegge.
- Dammi la mano destra - sorrise -Tranquilla, è un numero che ho già fatto. -
Didi si girò leggermente e lui le strinse la mano destra attorno alla scheggia più grande.
Poi, prima che lei potesse anche solo impallidire o fermargli la mano, con un gesto deciso incise un lungo taglio sul petto scoperto, gemendo leggermente, mentre con l'altra mano la tratteneva per impedirle di sottrarsi alla prova.
- Ah... Fa un pò male, in effetti.
Didi non riuscì nemmeno ad urlare quando sentì la pelle lacerarsi sotto la scheggia affilata. Un urto di nausea le invase la gola, mentre il sangue scuro sgorgava dal taglio e gli colava sul petto, fino all'ombelico.
- Oddio. Oddio! Tu sei pazzo! Lasciami andare!
- Stai ferma, devi guardare. Apri gli occhi.
La teneva stretta per le spalle e non le permise di girarsi né di muoversi, costringendola a vedere che nell'arco di una manciata di secondi il sangue aveva smesso di colare. Pochi minuti di silenzio ansioso, e del taglio restava solo un solco rosato.
- Non resterà nemmeno il segno.
Le labbra di Didi tremavano.
- N-non capisco... oddio. Oddio.
Un singhiozzo ruppe il silenzio. La vista annebbiata, una vampata di sudore freddo, e Didi sarebbe crollata sulle ginocchia se non fosse stata già seduta per terra, bloccata tra le gambe di Jacob.
Follia. Ma perché cazzo devo piangere, perché non riesco a smettere di piangere. Non ho pianto neanche quando ho seppellito Paul. Facendo i conti, saranno dieci anni che non piango, e l'ultima volta era a un matrimonio. Sarà quello? Troppi anni col tappo sopra? Giuro che se adesso riesco a smettere, e torno a casa sana e salva, e questa specie di fumetto dell'orrore finisce bene, non mi ridurrò mai più così. Ti odio, Jacob. Mi odio. Dio, fammi smettere di piangere, fammi arrivare a casa dai miei bambini, giuro che sarò più prudente, giuro che non mi fiderò degli sconosciuti, che non rischierò più, che...
- Ehi... Stai bene?
- No. Voglio andare a casa mia. Voglio svegliarmi nel mio letto e dire "Meno male, stavo sognando".
- Dovevo farlo, se no non mi avresti mai creduto. Mi dispiace, Didi... Sono così stanco. Di non poter dire niente a nessuno per non essere preso per pazzo. Di essere sempre... solo, ad ascoltare le cazzate della gente, i cuori che battono a raffica quando mentono, e sapessi quanto lo fanno, mi fanno schifo. E poi, gli odori. Non mi danno pace.
Un sospiro, quasi un ringhio, gli salì dal petto.
- Li sento tutti gli odori, Didi, tutti, sono costretto a sapere tutto. So cosa una persona ha mangiato, se sta bene o se è malata, se si lava e con cosa, che lavoro fa. Se ha paura. Se ha paura perché ha mentito. Sento se ha fatto sesso e... se ha voglia di farlo.
Il cuore di Didi adesso pulsava nelle vene del collo come un nucleo di calore accecante.
- Lo capisci? Sento i cuori che battono, se accelerano per la paura o per... altro. Per esempio...
La voce di lui era più vicina e il suo fiato le scaldava il collo e le orecchie. Non riuscì a muoversi quando lui le passò un braccio davanti, sul petto, tirandosela più vicino.
- ...adesso tu hai paura. Si sente l'odore delle lacrime, del sudore e dell'adrenalina. Ma sei anche eccitata, lo sento.
Le leccò una lacrima che colava alla fine della guancia, sulla mascella.
La voce di lui era un fremito caldo che rimbombava nelle orecchie e sulla pelle del collo.
Didi non poté fare a meno di chiedersi cosa prova un animale preso in trappola, o una preda sotto i denti del cacciatore.
Riprenditi, pazza incosciente, alzati e scappa, chi cazzo ti ha detto che è un ragazzino? E' pericoloso. Ha scritto pericolo in faccia, non sai leggere, Wonder Woman? Cretina, te e chi ti ha detto una cretinata del genere, maledizione. I bambini. I miei bambini. Alzati e scappa, alzati e scappa... E se non mi lascia andare?
- Smettila. Adesso basta, Jake.
- Hai paura di un bamboccio?
- Sei scemo come... no, sei terrificante. Lasciami andare, voglio tornare a casa. Voglio tornare a casa!
- A casa va tutto bene, stanno dormento. Lo sai che posso sentirlo, è tutto tranquillo.
- Lasciami, Jacob!
- Mi dispiace per oggi, Didi, ma sono contento di averti trattata male perché sono contento di essere qui a parlarti, adesso. E mi piace, mi piace... sentirti.
Dio, per favore, fammi sprofondare.
Più veloce della sua immaginazione, inatteso come un temporale, silenzioso come una morte nel sonno, la fece scivolare a terra e si stese al suo fianco, quasi sopra di lei.
- Didi. Non mandarmi via, per favore.
Le sue mani mi accarezzano i capelli e poi scendono sulla schiena, sono roventi. Mi guarda negli occhi ma non ho il coraggio di tenerli aperti, li chiudo, sento solo il suo respiro caldo e poi la bocca carnosa e forte che afferra la mia, e poi la lingua, caldissima, il respiro che non riesce a uscire.
Non capisco, non posso capire, non riesco a pensare, vorrei farlo ma non riesco a pensare. Si aggrappa a me come un naufrago che sta per affogare ed io a lui, e al diavolo tutto, siamo due sopravvissuti nel mare blu della notte e nel mare nero che ci impedisce di vedere le sponde amare delle nostre vite.
Lo sento stringere più forte, ora pesa su di me, avvolge le mie gambe con le sue. Lo sento pulsante e caldo contro di me. Non so cosa fare. Cosa vuole da me? Cosa voglio io? La risposta mi sconvolge, ma so che è vera, il mio corpo la ripete incessantemente.
Non so come ma lui riesce a sentirmi, come è possibile? Chi è questo ragazzo tenero e antico, sfacciato e dolce, questo bambino in un corpo di uomo che mi porta via da me stessa e dalla ragione? Cosa vuole da me?
- Dimmi che va tutto bene, Didi, dimmi che non hai paura di me...
La mia risposta è che gli prendo il viso, ora sono io che ho bisogno di baciarlo, mi arrendo, non combatto più.
Lui si prende la mia bocca e intanto mi spoglia, ha fretta, mi spoglia solo il tanto che basta per liberarmi le gambe ed il ventre, sento la sua fretta e sa quasi di angoscia.
Non so come, ma sento che sta prendendo tutto di me, tutto quello che sono.
Sono forte, voglio che prenda la forza, sono fragile come carta velina e voglio che prenda anche la mia debolezza, le risate e le parolacce. Voglio che prenda le mie lacrime, la mia solitudine, voglio che la mischi alla sua. Mi chiedo che odori senta su di me, spero che sia qualcosa di buono. Di cosa sanno i miei capelli, i seni su cui sento il suo fiato e il suo viso, gli abiti con l'odore dei miei figli, del latte di Nessie, il mio profumo alla magnolia, la mia casa che per me sa di legno, di pace, di cose buone e perdute, e per lui? Il mio odore gli piace, lo sento che mi respira. Sento la sua mano affondare nella treccia e disfarla, scioglie i capelli e ci si annoda le dita, mentre divora il mio viso. Mi lecca viso e collo, morde leggermente, e mi chiedo se ho ancora il sapore del pianto di prima o del sapone di questa mattina, o se si sono persi nella notte e nel sudore.
Prenditi quello che vuoi, Jake, sono quello che tu vuoi. Prendi la donna, la ragazzina, la madre, la figlia, prendi quello che vuoi. Perché anche tu sei uomo e bambino, sei tenero e feroce, giovane e antico, sei fragile e forte. Siamo uguali, siamo dello stesso sangue. Prendi ciò di cui hai bisogno e riposati, smetti di fuggire, prendi quello che vuoi, adesso.
Non sento più freddo, è su di me. Mi apre le gambe, i muscoli delle cosce sono tesi, il suo corpo sulla mia pelle che comincia a riscaldarsi.
Non resisto, non penso, non rispondo. Non so se mi sono arresa a lui o a me stessa. Sento il bisogno fisico, disperato, di dargli quello che mi chiede.
Non importa se entra in me troppo presto, se mi fa un pò male, mi riempie fino in fondo ed ancora di più, lo sento fino nell'anima, se ne ho ancora una, se non l'ho perduta quando tutto questo è cominciato. Non importa se preme sulle costole e mi impedisce di respirare. Non importa, ha sete e voglio che beva, ho sete anch'io e vorrei berlo, se riuscissi a muovermi, se riuscissi a girare la testa e a trovare la sua bocca che adesso sta mordendo la mia spalla. Si aggrappa ai miei seni e morde, avverto il suo bisogno e lo lascio fare. Chiudo gli occhi e annego con lui nella notte.
Il piacere è lì dove lui spinge forte, nel seno che brucia sotto le mani ruvide, le mani che mi graffiano la pelle, è nella bocca che beve e morde senza pensare che potrebbe farmi male.
Ma dove sta il piacere di perdersi, l'estrema liberazione di non volere niente, il piacere di sprofondare e darmi ciecamente, come un salto nel vuoto? Quando è successo che non mi importasse niente di me? Non importa, ma la magia si ripete. Mi ha persa, mi ha liberata di nuovo da me stessa, non sono mai stata così libera e potente come quando mi sono data senza tenere nulla.
Una spinta più forte, il suo bacino un attimo immobile, si inarca e poi si perde in un gemito e nella notte. Crolla su di me e accarezzo la sua pella sudata, e sono certa che la mia tenerezza è antica come il mondo, e che lui può sentirla. Chiudo gli occhi e mi lascio sprofondare.
- Oh dio, Didi... Scusami....Scusami. Mi farò perdon...
Ti supplico. Non parlare.
****
non sai quanto vorrei essere seduta con te, come al solito, davanti a qualcosa di buono, ma non posso vederti,
ho iniziato questa lettera mille volte, e ancora non so
Jus,
ho provato a scriverti almeno otto volte da questa mattina, stavolta ho intenzione di arrivare in fondo a qualunque costo, e vada come vada.
Mi dispiace per il pacco che ti ho tirato ieri, ma non ce l'ho fatta. Non è che non ce l'ho fatta a venire in città, non ce l'ho fatta a trovare il coraggio di vederti, come una vera coniglia.
Mi leggeresti dentro, ma capiresti male, e io non lo sopporterei. Nemmeno da te, questa volta. Ma non è colpa tua, perché questa... cosa è incredibile, e dove la metteremmo mentre ne parliamo? Nelle storie d'amore? Nelle storie di sesso? Nelle avventure? No, scusa ma non ce la faccio. Arrossisco e la difendo, questa cosa, con tutta me stessa.
C'è stata la notte sulla collina, quando ha cominciato a parlare. La prima volta.
E poi ci sono state un sacco di altre notti.
Di giorno tra noi non è cambiato nulla, solo ridiamo di più, perché lui è scemo come una caramella, e io non gli posso mentire, e poi se mi ci metto sono anche più scema di lui.
Di notte lo aspetto.
Lui non sempre viene, e io lascio fare, perché ho deciso che sono sua. Cioè, sono mia, ma può fare quello che vuole. Ed è qui che troveresti da dire, mi diresti che mi sto annullando e bla bla, le solite cose che si dicono quando vedi un'amica che si mette in una storia sbagliata. Ma questa non è una storia, te lo giuro, perché le storie hanno un capo e una coda, passato e presente e futuro. Io non ce l'ho, ho solo il presente e tutti i minuti in cui lo aspetto. Lui se ne andrà, e credo che sarà presto. Non appartiene né a me né a questo posto, anche se per ora sembra così felice di restare, c'è un solo luogo, una sola storia e una sola donna a cui appartiene, disperatamente. Si chiama Bella, lo so perché una notte che dormiva vicino a me la chiamava, nel sonno. Poi, un'altra notte, mi ha raccontato, ma so che non mi ha ancora detto tutto.
Non riesco ad usare la parola amore. Non ci riesco. Non è amore quello che ho provato da subito, quando l'ho visto. Non è amore questo mio desiderio lancinante che stia bene, che guarisca e che torni a prendere ciò che gli appartiene, questa tenerezza che sento da poter smuovere le montagne per lui. No, non è amore.
Oddio, Jus, è come per i miei figli. E' qui che tu mi prenderesti a sberle. Mi interessa solo che stia bene.
Ti dicevo, la notte lo aspetto, e non sempre viene. Mi sorprende, come... Una volta ho letto una cosa del tipo:
"Quella notte hai inventato giochi di ogni sorta, movimentano il nostro chiuso universo. Te ne andavi all'improvviso per poi tornare. All'inizio ho avuto paura, ma poi ho capito che stavi ricreando la grande avventura umana del perdersi e del ritrovarsi... e ho fatto lo stesso con te."
Mi ricordassi dove l'ho letto.
Ci sono notti in cui parliamo, fino al mattino, e se i bambini o Big Bear si svegliano lui se ne accorge in tempo, così non ci hanno mai sorpreso. Certe altre notti facciamo l'amore, posso dirlo? Facciamo l'amore. E' acerbo e violento, qualche volta, altre volte malizioso e tenero. Mi fa parlare, si fa spiegare le cose, mi fa arrossire, mi fa... Lasciamo perdere. Mi fa anche male, qualche volta, con la sua rabbia, ma succede sempre meno. Sorride sempre di più.
Sentivo che mancava ancora qualcosa, e ieri sera ne ho avuta la conferma. Mi ha riportata sulla collina, si è spogliato davanti a me, ha detto una cosa come "Indietro non si torna", e davanti a me è diventato l'altro se stesso.
Credo fosse tanto pronto lui a mostrarsi, quanto io ad accettare la verità, ed è lui che mi ci ha preparata. Mi sono gelata per un attimo, pensando a tutte le volte che gli ho affidato tranquillamente Nessie, ma poi ho riconosciuto i suoi occhi e ho capito che in nessun luogo al mondo sarebbe stata più al sicuro.
So che da adesso in poi saremo ancora più vicini, so cosa gli è costato rivelarmi quello che è.
E anche molte altre cose mi sono state chiare.
Quando è tornato nella forma umana, aveva negli occhi una domanda: l'ho abbracciato e gli ho risposto nel solito modo, l'unico che pare dargli pace.
Voglio che se ne vada, Jus, credimi. Ma non per il motivo che pensi tu. Non ho nessuna paura di soffrire, non mi pento di nulla, rifarei ogni cosa esattamente allo stesso modo. Voglio che torni a vivere, che torni a casa sua.
Tu forse, anzi ne sono sicura, mi diresti che mi sta usando, e non crederesti mai a quanto io sia felice. Quando se andrà, e forse anche prima, qui dovrà cambiare qualcosa. Mi sentivo finita, me ne rendo conto solo ora, e lui mi ha ricordato chi sono, semplicemente nutrendosi di me.
Sono di nuovo bella, Jus, e giovane, e ho voglia di vivere, e sento che posso farlo. Mi sembra incredibile aver pensato a me stessa come a una "signora di mezza età". Sono più bambina di Nessie, e grazie a lui lo resterò fino a cent'anni.
Non c'è ancora molto tempo, lo sento, ogni mattina mi chiedo se è il giorno in cui ci saluteremo. E ogni giorno mi ripeto che non avrò nessun rimpianto.
Mi piace pensare che anche lui mi voglia bene, anzi, ne sono sicura. Confesso, lo so, che per lui sono anche una madre. La sua, l'ha persa pochi anni fa, e se è una madre che vuole da me avrà anche questo. Ti ho già spiegato.
Ovvio che anche questa lettera finirà nel fuoco, amica mia, sorella mia. Ma sono contenta di avertela scritta. Porta pazienza, quando lui se ne andrà avrò bisogno di una tonnellata di cioccolata calda, sarò io a tormentarti per incontrarci al più presto e recupereremo il tempo perduto.
Ti voglio bene
Diane
** Nel racconto originale, la donna per la quale Mowgli lascia la Jungla e torna al villaggio degli Uomini non è la ragazzina che prende l'acqua alla fonte, ma la madre. Messua è la sua madre adottiva e forse anche la madre biologica, in quanto essa crede di riconoscere in Mowgli il figlioletto Natoo, rapito diciassette anni prima da Shere Khan, la tigre.
Image: Marcus74id / FreeDigitalPhotos.net
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