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And I'll show you what you really need
Give too much attention
And I will flex your imperfections
Can't you see it's over
Because you're the god of a shrinking universe
Purposeless survival
Now there's nothing left to die for
So don't struggle to recognize now
The cruelly heart-felt suicide
Can't you see it's over
Because you're the god of a shrinking universe
Can't you see it's over
Because you're the god of a shrinking universe
The Muse
.
E’ quasi notte. Quanta strada abbiamo fatto?
Le ore rotolano via, come le ruote che mi portano lontano.
Mi stai già cercando, lo so. Forse mi stai già odiando.
Il dolore mi spezza il respiro, ho un coltello piantato nelle costole.
Perdonami.
Credi nel mio amore e perdonami.
Il Signore, così gli si rivolgevano tutti, sembrava aver accettato almeno di prendere in considerazione la mia proposta.
Incredibilmente ero stata ascoltata ma, cosa molto più importante, avevo ottenuto -o almeno così pareva- ciò che Alice ed io avevamo sperato sopra ogni altra cosa: i Volturi si stavano allontanando velocemente dalla riserva e da Forks. E, come era previsto nel patto che avevo stretto con Aro, mi portavano con loro.
Avevo viaggiato sulla stessa auto sulla quale viaggiava lui; mi ci avevano caricata tremante e mezza svenuta ed era stata Renata, la sua silenziosa guardia del corpo, a farmi accomodare sul sedile posteriore. Aveva preso posto accanto a me e di tanto in tanto mi chiedeva con tono gentile e sollecito se avessi bisogno di qualcosa. Credo avesse ricevuto ordini precisi in merito.
Avevo chiuso gli occhi.
Cercavo di allontanarmi come potevo dall’incubo; avrei pagato oro perché il sonno mi desse tregua, ma non ottenevo niente più di uno stato di torpore che mi istupidiva senza darmi realmente sollievo.
Aro, seduto a fianco del suo autista, di tanto in tanto si voltava a guardarmi. Non riuscivo a cogliere il significato della sua espressione; di nuovo il suo sguardo mi sembrava nascosto dietro ai millenni, e le emozioni che vi si celavano mi erano del tutto incomprensibili.
Passarono così alcune ore, poi l’autista -che non conoscevo- mormorò qualcosa al suo padrone. Pochi minuti dopo le auto lasciavano la strada principale per seguire una diramazione indicata da un vecchio cartello di legno; ci fermammo dove terminava il tratto percorribile in auto e iniziava la foresta più fitta.
-Abbiamo pensato che necessiti di riposo, mia cara, e anche a noi non dispiaceranno una sosta e una visita nei dintorni.
Così mi disse Aro, poi mi prese in braccio con un gesto tanto rapido e leggero quanto inaspettato.
La facilità con cui mi sollevò mi fece pensare che, sebbene fosse così antico, possedesse ancora almeno in parte la forza straordinaria di quelli della sua specie.
Circondato dagli altri e tallonato da Renata -che non si allontanava mai da lui più di un paio di metri- si tuffò in volo in quello che ormai, per i miei occhi umani, era solo il buio impenetrabile della foresta. Nessun rumore tradiva la presenza degli altri, ma sapevo che stavamo procedendo in formazione, come uno stormo di uccelli neri.
Mentre ci muovevamo schivando alberi e rocce, Aro si mise a parlare. Cominciammo a dialogare come avvolti da una bolla di silenzio, al riparo da qualunque tipo di intromissione; l’intuito mi disse che il mio interlocutore non gradiva essere ascoltato. Soprattutto da Caius, che continuava a dimostrare un’aperta ostilità nei miei confronti.
Rinchiusi, isolati dal mondo, la presenza di Aro cominciò a scuotermi dall'interno. E allo stesso modo inatteso in cui, durante il nostro primo incontro a Volterra, avevo provato l’irresistibile impulso di toccare la sua pelle d’argilla bianca, così una strana debolezza mi fece commettere l'assurdo, qualcosa che mi fa disgustare di me stessa come nessun altro degli errori che ho compiuto nella mia vita.
Posai la testa sul suo petto.
Era come se guardassi me stessa dall'esterno e non possedessi più la Bella che vedevo; se fosse stata sotto il mio controllo, avrebbe almeno tentato di fuggire, si sarebbe divincolata. Di certo non si sarebbe stretta al vampiro.
Cosa mi stava succedendo?
Mi chiesi se il talento più grande di Aro fosse davvero la lettura del pensiero; ci doveva essere qualcosa di ancora più pericoloso. Era circondato da un’aura di potere che perfino io, umana dai sensi annebbiati, percepivo inequivocabilmente, qualcosa che mi fece sentire fragile, sul punto di spezzarmi. Credo fu per questo che cercai sollievo nella sorgente di forza che mi stava più vicina, pur provando allo stesso tempo ribrezzo, paura e una lacerante nostalgia per il mio uomo e per mio figlio. Era come se dovessi per forza aggrapparmi a qualcosa per non annegare, per non sprofondare nelle tenebre fredde del mio futuro che si avvicinava.
Era questa la follia che viene chiamata Sindrome di Stoccolma?
Volavamo nel buio ed Aro soffiava le parole al mio orecchio.
-Ti renderai conto, mia cara, che ci sono molti aspetti che stuzzicano la mia curiosità in ciò che mi hai proposto. Per cominciare, Isabella, tu aspettavi un bambino. Quel bambino è nato? Dov’è? Io ho il preciso dovere di interessarmi a questa creatura. Un bambino nato da un’umana e un vampiro… Potrebbe essere pericoloso, oppure molto, molto interessante.
Mi sentii morire. E fui troppo, troppo impulsiva.
-No. Il bambino è… u-umano.
-Il bambino è umano? Isabella cara. Il bambino sarebbe umano se suo padre fosse umano. In caso contrario…
Io avvampai e sono sicura che Aro respirò l'odore del sangue che affluiva alle mie guance. Percepii il suo movimento, lieve come quello dell'aria.
-Io ti sto dicendo che... che mio figlio è umano. Umano, te lo giuro. Perché il padre non è Edward Cullen!
Di nuovo, il familiare brivido caldo delle guance che si arrossavano. Aro non perse l’occasione di infierire.
-Isabella! Sono molto stupito di te. Mi stai dicendo che portavi in grembo il figlio di un uomo che non era tuo marito?
-Sì, è così. Mio figlio è stato concepito poco prima del matrimonio, con un umano. Mio figlio è umano, Aro. Non... non è nulla per te. Un bambino come tanti, niente di più...
-E come ti aspetti che io possa crederti? Se c’è una cosa che ho imparato nel tempo che gli dei mi hanno concesso, è che una madre di qualsiasi specie non si fermerebbe davanti a nulla per proteggere suo figlio. Inclusa la menzogna... Mentire a me, tesoro. Certo, questo spiegherebbe tutto: tanta devozione e tutta questa fretta di allontanarmi dai Cullen. Stai cercando di allontanarmi da tuo figlio, non dai Cullen. E’ così? Ah, questa tua adorabile imperscrutabilità…
-Mio figlio è umano.
-Voglio una prova.
-Non so come dartela in questo momento. Devi credermi. Ti prego.
-Hai partorito un mezzosangue e me lo stai tenendo nascosto, piccola mia.
-No! Edward ed io abbiamo divorziato. Fai controllare, sono sicura che puoi farlo. Il bambino è stato riconosciuto da suo padre, che è un ragazzo del luogo, un mio... amico. Non è figlio di Edward Cullen e non è niente di speciale. E’ solo… un bambino. Il mio bambino. Il mio bambino…
Non avrei voluto mostrarmi così debole, ma non riuscii a controllarmi. Cominciai a piangere contro il petto dell’essere che mi teneva letteralmente tra le mani e avrebbe potuto uccidermi con un solo, delicato gesto; sarebbe bastato che spostasse il viso verso il mio collo scoperto.
Provo un’intensa vergogna anche per quello che successe dopo; una vergogna che mi ha portata più volte a chiedermi come avrei potuto punire me stessa a sufficienza. Razionalmente so di avere ceduto a qualcosa di molto più forte di me; ma non riesco a non rimproverare al mio cuore di non essere stato abbastanza forte. Come se io fossi stata realmente colpevole di aver permesso a Lui di avvicinarsi tanto. Ancora oggi nessuno sa che Aro inalava il mio odore e beveva le lacrime che mi colavano sul viso e poi sul collo, e che io restai immobile, impietrita, ad ascoltare la sua bocca gelida e le punte affilate dei canini che scorrevano sulla mia pelle, fino a quando non si scostò e mi permise di respirare.
-Il ricordo della tua fragranza nei pensieri di Edward Cullen è rimasto vivo in me. Sei così… dissetante, Isabella. Ed è così emozionante sentirti perorare la causa di questo qualcuno che stai proteggendo, così totalmente disinteressata alla tua sorte. L’odore di questa passione scalda letteralmente le tue vene, si potrebbe dire che sei arsa dall’amore… Passione e devozione. Sei stupenda, mio piccolo tesoro. Con tanta capacità di abnegazione saresti uno scudo perfetto e inattaccabile, se solo…
Si riscosse ed assunse un tono paterno, più distaccato.
-Credo che per ora perdonerò le tue piccole bugie. Quello che dici corrisponde perfettamente alle ultime informazioni che ho ricevuto, prima che qualcuno privo di raziocinio uccidesse le mie due guardie. Che eri ancora umana, non vivevi più con i Cullen ma in un paesucolo di infelici sulla costa e che un ragazzo alto e bruno pareva gradire molto la tua… compagnia.
-E’ tutto vero. Il ragazzo. Il ragazzo è... il padre... di mio figlio.
Dio, aiutami.
-Vediamo un po’. Se ho capito bene, tu sostieni di avere abbandonato tuo figlio per salvare… i Cullen? Quindi ti sacrificheresti per i Cullen. Che forse non sono nemmeno più così innamorati di te, visto che hai, perdonami il termine, fatto becco il figlio più giovane del mio amico Carlisle, il suo prediletto. Come se tu credessi davvero che le vostre vite siano ancora così strettamente intrecciate... o tu avessi per loro una devozione veramente straordinaria.
La lunga pausa di silenzio che seguì fu una tortura quasi intollerabile.
Quando Aro parlò di nuovo, la sua voce era come di velluto.
-Capisci che non torna, Isabella?
Non tentai nemmeno di mentire di nuovo. Aro non leggeva la mia mente, certo, ma non ne aveva alcun bisogno. Non sarei stata per niente credibile se avessi raccontato di aver abbandonato mio figlio per amore della famiglia del mio ex.
-Ti dico che cosa credo io, Isabella. C'è qualcosa che cerchi di nascondermi. Quanto è affascinante tutto questo... Credo che tu stia cercando di proteggere qualcun altro oltre a tuo figlio, che effettivamente pare essere solo il figlio di un giovane indigeno dai bollenti spiriti. C’è qualcun altro o qualcos’altro che secondo te corre un rischio a causa della nostra vicinanza. Ragioniamo insieme, mia cara. Chi, oltre ai Cullen, potrebbe essere minacciato da noi? Qualcuno o qualcosa di… molto interessante. Chi ha ucciso le mie due guardie, forse?
-No!
-Ti adoro, piccola mia. Che piacere sublime dare la caccia alla verità… Ci stiamo avvicinando al punto, vedo. Perché sai, cara, né Carlisle né i suoi figli sarebbero così stupidi da uccidere due guardie dei Volturi; sanno perfettamente che le conseguenze di un simile gesto potrebbero essere… pesanti, ecco. Decisamente fastidiose.
In lontananza apparvero delle luci e noi cominciammo a rallentare la corsa. Il sollievo mi fece quasi piangere di nuovo.
-Vedi bene, Isabella, che non posso accontentarti: c’è qualcosa in tutta questa storia che suscita la mia curiosità. Come posso resistere?
Raccolsi di nuovo il coraggio, per l’ennesima volta in quel giorno buio. Dovevo, dovevo farcela. Dovevo solo ripetere quello che avevo imparato. Ce la potevo fare. Ce la feci.
-Aro, la nostra offerta è questa. Portami subito in Italia e Alice ci raggiungerà per unirsi a... a voi. Fai una qualsiasi altra cosa e non la vedrai mai più. Lei continuerà a fuggire e tu non la troverai mai, perché vedrebbe sempre chi la sta cercando. Se accetti, puoi averci tutte e due facilmente... io farei del mio meglio, entrambe ti saremmo fedeli, finché tu lasciassi in pace i nostri… la nostra famiglia. Io… non capisco cosa…
-Isabella… che cosa ho mai fatto per meritarmi tanta durezza? Ti rivolgi a me come se io fossi un piccolo criminale. Sei indelicata. Vuoi forse ferirmi?
-No, giuro che non volevo dire questo! No…
La foresta si era diradata in uno spiazzo erboso; ci trovammo di fronte ad una villa a tre piani in legno e pietra che, per la struttura elegante e il naturale inserimento sulla costa della montagna, mi ricordò casa Cullen.
Una donna pallida e bella dai lunghi capelli rossi, apparentemente sulla quarantina, stava in attesa sulla soglia della porta principale. Gli occhi color porpora rivelavano la sua natura e il suo stile di vita.
-Riprenderemo il discorso più tardi, bambina. Ora salutiamo la nostra ospite per questa sera. Françoise, mia cara! Sembra un’eternità dall’ultima volta!
-Aro, mio Signore. Tu mi onori oltre ogni immaginazione con questa visita.
-Sei troppo buona con noi. Sei certa che non ti disturbiamo troppo?
-Non dirlo neanche per scherzo. Oltretutto sono sola… Jerome è in viaggio per affari, la casa è completamente vostra. Disponetene come meglio credete. Mi sono presa la libertà di preparare la nostra stanza per te, mio Signore, e la migliore stanza degli ospiti per tuo fratello. Non saranno mai degne di Voi ma sono di certo il meglio nella mia umile dimora.
-La tua ospitalità è come sempre squisita, amica mia. Isabella, la mia fedele amica Françoise de Challant è una maestra di lusso e ospitalità. Ha svolto il suo apprendistato nientemeno che a Versailles… Ah, il vecchio Louis non sapeva fare a meno di lei! Risiedere nella sua casa è un’esperienza impagabile, piccina, impagabile. Ti affido a lei, allora. Anzi… Jane?
-Sì, mio Signore.
-Vorrei invitare Isabella a cena, questa sera –no, non in quel senso, cara- e sono certo che gradirebbe riposare un po’, rinfrescarsi e…sì, cambiarsi d’abito. Tu e Renata sareste così gentili da prendervi cura di lei, assieme a Françoise?
-Sarà fatto. Sarai soddisfatto di me, Signore.
-Mio angelo. Saprai controllare la tua… impulsività, mi auguro.
-Non farei mai nulla per dispiacerti e tutto per compiacerti, Signore, lo sai.
-Lo so, lo so. Ora andate.
La padrona di casa ci fece strada sulla soglia.
Vista la struttura di legno e pietra, mi aspettavo che gli interni della villa assomigliassero a quelli di un cottage tradizionale, con legno dappertutto e trofei di caccia; invece potei vedere che il lusso risplendeva ovunque, fin dove la mia vista annebbiata dalla stanchezza e dal dolore riusciva ad arrivare. La vampira dai capelli rossi ci guidò al piano superiore, dove si trovavano le stanze da letto; alcune porte si aprivano su entrambi i lati di un elegante corridoio e, al fondo di questo, una porta doppia a vetrate colorate sembrava illuminata dall’interno. Immaginai che dovesse essere l’ingresso della camera padronale.
Ci fermammo poco prima; la nostra ospite aprì la porta di una stanza elegantemente arredata, attigua a quella principale, e mostrò alle mie due… guardie -non posso definirle diversamente- un’enorme cabina armadio decisamente ben fornita; poi mi lasciò sola con Jane e Renata.
-Avanti, spogliati- mi intimò Jane, spingendomi verso quella che doveva essere, a quanto vedevo, la porta di una stanza da bagno.
-Co… cosa volete farmi?
-Non vorrai presentarti ad Aro puzzolente di sudore e con quell’orrida camicia a scacchi, vero?
-Jane… Sarà già abbastanza spaventata, non è necessario trattarla in questo modo. Cara, oggi ci hai visti tutti in abiti da viaggio ma Aro gradisce un certo decoro alla sua presenza. Vogliamo solo aiutarti a vestirti per la cena… rilassati, penseremo a tutto noi. Nessuno ti farà del male, il mio Signore non lo permetterebbe.
Non avevo altra scelta, perciò chiusi gli occhi e le lasciai fare; mi lavarono e vestirono come si fa con una bambina, con mani gelide ed efficienti. Quando decisi di tornare vigile, di recuperare la consapevolezza, dallo specchio davanti a me un’incantevole sconosciuta mi guardava, pallida quasi quanto le vampire che osservavano compiaciute il risultato dei loro sforzi.
La figura sottile nello specchio era fasciata in un lungo abito rosso che lasciava scoperte le spalle, sulle quali ricadevano lunghi capelli scuri e lucidi le cui onde erano state accentuate sapientemente. Un’alta cintura nera di pelle segnava il punto vita. Non credevo ai miei occhi.
-Sei incantevole, tesoro. La tua pelle è così bianca… Sarai stupenda, da immortale.
-Sbrigati, Aro non ama aspettare. Mi auguro che si stanchi rapidamente di te, è stato un lavoro sovrumano perfino per noi renderti a malapena presentabile…
La stanza dietro alle vetrate colorate era effettivamente quella dei padroni di casa.
Definirla “camera” era riduttivo; si trattava in realtà di una specie di suite lussuosamente arredata, divisa in una zona giorno e una zona notte nella quale troneggiava un enorme letto a baldacchino di legno massiccio. La zona giorno era costituita da un salotto-studio dall’atmosfera intima e raccolta; i padroni di casa vi soggiornavano per scrivere o studiare, conclusi, osservando la ricca biblioteca ma soprattutto la scrivania ingombra di carte e libri sulla quale troneggiava un notebook di ultimissimo modello, collegato ad uno schermo ultrapiatto.
Un piccolo tavolo rotondo era stato elegantemente apparecchiato per due persone; su un altro tavolo di servizio stavano già alcuni piatti da portata il cui contenuto era nascosto da coperchi d’argento.
Mi chiesi se Aro avrebbe veramente mangiato. Io, decisi, lo avrei fatto.
Primo, portali via dalla riserva
Secondo, cerca di sopravvivere.
Questi erano i due comandamenti che mi ero data, assieme ad Alice.
Il primo era stato rispettato, il secondo lo avrei onorato subito. Avrei mangiato; dovevo mantenermi in forze. Finché restavo umana, continuavo a ripetermi, c’era ancora speranza.
Passarono alcuni minuti.
In piedi al centro della stanza, non sapevo cosa fare.
Non vidi subito Aro; udii la sua voce melodiosa provenire dall’angolo più scuro e lontano della suite.
-Benvenuta, bambina mia. Prolungherei ancora il piacere di osservarti, ma immagino tu sia affamata.
Si materializzò come uno spettro accanto a me e mi prese per mano per accompagnarmi alla tavola dove avremmo consumato la nostra cena.
Ho riflettuto molto, in seguito, su ciò che accadde quella notte. Non ci fu vera violenza se non in un unico, indicibile atto.
Per tutto il resto del tempo non furono né la forza né le minacce a farmi sentire continuamente sopraffatta, ma piuttosto un conflitto: la lotta interna cieca e furiosa fra un invincibile ribrezzo e un’attrazione altrettanto potente. Qualcosa che Aro doveva avere incontrato mille volte nel corso della sua lunga vita e di cui era consapevole ed esperto; qualcosa che avrebbe manipolato con arte consumata, senza alcun bisogno di leggermi nel pensiero.
Si era cambiato d’abito; nel pomeriggio aveva avuto l’aria di un manager in viaggio per lavoro, ora i colori molto scuri del completo che indossava mi restituirono in parte l’impressione di solennità che avevo provato al nostro primo incontro, stemperata da una certa aria di elegante noncuranza. La camicia, anch’essa scura, era aperta e attorno al collo, invece che la cravatta, Aro portava la stessa pesante catena di metallo bianco e splendente che gli avevo già visto a Volterra, col ricco pendente che rappresentava una V intrecciata a delle fronde.
Come a Volterra, non avrei saputo dire se era bello; i lineamenti regolari ed armoniosi erano come sfumati da una patina polverosa. Era l’effetto di quella sua strana carnagione più simile all’argilla che al marmo.
Gli occhi annebbiati erano ipnotici; bello o brutto che fosse, come la prima volta che lo avevo visto non riuscivo a staccare i miei occhi dai suoi.
Di nuovo provai il desiderio irresistibile di sfiorargli la pelle e di toccargli i capelli. Avvampai; un sorriso misurato e perfetto gli illuminò il viso.
-Tesoro, non si può indossare un vestito del genere senza gioielli. Le mie due ragazze non sono state impeccabili, con te. Permettimi di rimediare.
Di me stessa ho sempre saputo poche cose, ma certe; una di queste era che non mi importava nulla di abiti né di gioielli né della combinazione di entrambi.
Ma quando Aro mi trascinò davanti al lungo specchio che rifletteva la luce delle candele sulla tavola, e mi mise al collo quella collana, la mia indifferenza fu scossa. Perché la preziosità dei rubini e dell’oro bianco, avvolti al mio collo dalle sue stesse mani, era evidente anche a me; e la scelta di quel particolare gioiello era talmente perfetta da essere perversa. Non poteva trattarsi di un caso. Tutto, nei gesti del vampiro e nei bagliori rossastri delle pietre sulla mia pelle, sembrava gridare “Sei perfetta. Sei preziosa. Sei bellissima.”
Sfido qualunque donna a restare impassibile; io ci riuscii almeno in parte, ma solo perché, come un lampo nel buio, ricordai improvvisamente la storia di un grosso diamante e di un piccolo lupo di legno. La ricacciai nell’oblio per non essere sopraffatta dal dolore, ma tanto bastò per rendermi nuovamente sveglia e vigile.
Aro pareva soddisfatto. La mia prima impressione fu quella che mi guardasse con l’interesse di chi studia un oggetto in una vetrina, o quello di un appassionato di pittura in una galleria d'arte. Il suo sguardo non era quello di chi desidera, ma quello più distaccato di chi apprezza. O, più esattamente, quello di un appassionato di auto alle prese con un motore dalla meccanica particolare. Qualcuno che conosce, valuta, forse ama anche, ma essenzialmente esercita un controllo.
I coperchi d’argento svelarono una cena semplice e raffinata, così bella a vedersi che non osai toccare nulla fino a quando il mio ospite non mi ebbe incoraggiata a farlo almeno un paio di volte.
Fu in quel momento che mi resi conto che condividere il cibo è qualcosa di estremamente intimo; che la parte migliore del nutrirsi è condividere sapori, odori e colori con qualcuno che ami. Sotto agli occhi lattei eppure così attenti di Aro, mi fu estremamente difficile rilassarmi abbastanza per riuscire a portare qualcosa alla bocca; ma ricordai che mi ero ripromessa di sopravvivere. Restare viva ed in forze.
Era indispensabile compiacerlo a sufficienza da indurlo a tenermi in vita; così mi feci coraggio ed allungai una mano verso un canapè al salmone decorato con spicchi di limone, pepe rosa e rametti di aneto. Era delizioso e perfetto nella sua semplicità; gli ingredienti dovevano essere tutti della qualità più elevata. Ne cadde un pezzo, mentre lo mordevo, ma una mano troppo rapida per un essere umano lo raccolse prima che toccasse la tovaglia immacolata e lo riavvicinò alle mie labbra.
Avvampai di nuovo.
-La tua mano- ordinò Aro, inaspettatamente.
Gliela porsi.
Si concentrò; con una mano stringeva la mia, con l’altra mi accarezzava le dita stringendole di tanto in tanto in una morsa gelida, mai troppo forte.
-Niente di niente… Mi concederò di confessarti qualcosa, mia piccola amica. Il tuo rossore sta eccitando la mia curiosità come non accadeva da… secoli? Dovremo controllare. Deliziosa mente muta. Mangia, Isabella, ti prego. Vorresti esaudire un mio desiderio?
-C’è qualcosa che potrei negarti, Aro?
-Che tono… antipatico, cara. Come se qualcuno ci avessi dipinti ai tuoi occhi come dei bruti e tu gli avessi creduto. Ma è comprensibile, visto che la nostra conoscenza è tanto recente. Permettimi di spiegarti che vi sono inesattezze nel modo in cui è posta la tua domanda. In primo luogo, mi stai già negando qualcosa ed è proprio ciò che in questo momento desidero di più. Non puoi aprirmi la tua mente perciò, sia pure involontariamente, ti stai rifiutando a me. Hai certamente la facoltà di negarti; la violenza ormai da tempo non rientra tra i nostri piaceri. Non ti infliggerei nemmeno quella delicata e sopportabile di una piccola iniezione di Pentothal, tesoro, perché non proverei alcun godimento nel sentirti balbettare le risposte alle mie domande istupidita da una droga....Mio angelo, -continuò con con voce dolcissima- ti esorto a negarmi qualunque cosa tu non voglia … anzi, qualunque cosa tu non desideri ardentemente fare. Perché ti assicuro, mia cara, che tutto ciò che farai questa sera lo avrai desiderato con tutta te stessa. Ma… ti sto impedendo di mangiare? Fai una cosa per me, Isabella. Vuoi provare a rendermi felice?
-Se… se posso…
-Permettimi di nutrirti.
Fu il terrore a impedirmi di dire di no; sarebbe stato più intelligente, lo compresi solo col tempo, rifiutare dolcemente e lasciare che mi osservasse mangiare. Per cedere magari più tardi. Ma non sono capace di giocare con i desideri altrui, non è nella mia natura. E’ sempre stato più urgente per me accontentare chi mi sta vicino; l’arrendermi alle passioni mi appartiene molto di più, anche se questo in molti casi significa spegnerle più in fretta.
La passione che mi dominava in quel momento era il terrore e a quello dovetti abbandonarmi; la passione che muoveva il mio avversario, ancora oggi non la comprendo del tutto.
Con le posate d’argento Aro tagliò prima il canapè, poi altre piccole delizie, in pezzi che mi porgeva con delicatezza. Con mia estrema sorpresa si spinse ad assaggiare il cibo; sapevo -dalle mie precedenti esperienze con Edward- che per un vampiro poteva essere qualcosa di molto fastidioso.
In seguito compresi che, non potendo leggere nella mia mente il gusto delle vivande, tentava di carpirlo assaggiandolo egli stesso; e doveva essere stato grande il suo disappunto per non aver potuto cogliere l’esatto effetto che ogni aroma ed ogni sapore esercitavano su di me. Non tanto per interesse verso me, Bella Swan, ma perché non era in suo potere impedirmi di mentire o di essere imprecisa. In questo, sfuggivo completamente al suo controllo.
Mi interrogò lungamente per tutta la serata su dettagli insignificanti, come un tempo aveva fatto anche Edward; se il caviale mi paresse simile alla mousse di frutti di mare e dove i loro sapori differivano di più, per esempio, o quanto esattamente il pane tiepido e croccante mi fosse più gradito del pane a cassetta freddo, coperto da un velo di burro norvegese. Cercavo di rispondere sempre a tono e la mia paura cresceva, mista ad una strana eccitazione; la sua voce ipnotica mi risvegliava ad intervalli sapienti, come se coscientemente la usasse per accarezzare i miei nervi, sapendo di provocare un piacere doloroso.
Una tale intimità era troppo simile a quella che ora non volevo né potevo ricordare. Troppo simile perché io non ne soffrissi atrocemente. Aro aveva violato una parte segreta di me, e lo aveva fatto con una dolcezza tale da rendere il gesto ancora più orribile.
Continuammo così, come fuori dal tempo che sembrava non scorrere più.
Lui mi nutriva con lentezza deliberata e con la stessa lentezza poneva domande e ponderava le risposte. Mi interrogava sui cibi e su sensazioni e ricordi legati a ciò che in quel momento avvicinava alla mia bocca; oppure su minuzie della mia vita che nemmeno io sapevo di poter richiamare alla memoria, prima che lui mi avesse portata a farlo.
Poi commisi uno stupido errore.
Non sono strutturata per sopravvivere, credo.
Posso impegnarmi a farlo, ma non è detto che mi riesca un granché bene. Non ero abbastanza lucida e padrona di me stessa da evitare di cadere nelle solite brutte abitudini; così mi morsi il labbro, come faccio sempre quando sono nervosa, e molto prima che mi rendessi conto del sapore ferroso del sangue sulla lingua, mi ritrovai in piedi, appoggiata a qualcosa. Stretta a qualcosa di freddo.
L’amabile seppur inquietante compagno che un attimo prima sedeva di fronte a me, era ora alle mie spalle; mi aveva afferrata e mi stringeva contro di sé. Una mano sulla fronte mi costringeva a piegare la testa di lato, esponendo il collo; l’altro braccio mi teneva ferma stringendomi all’altezza della vita. Fu un solo istante; poi si riscosse e mi allontanò bruscamente, facendomi quasi barcollare. Pochissimi secondi dopo lo avevo di nuovo di fronte; mi teneva una mano, sulla quale posava le labbra.
-Ti chiedo perdono per questa deplorevole mancanza di controllo. Non accadrà più e tu mi aiuterai in questo.
Non feci in tempo ad avere paura o a chiedere come, né a pensare qualcosa di coerente.
Aro tolse l’ultimo coperchio d’argento dall’unico piatto del quale non avevamo ancora esplorato il contenuto.
Con mia grande sorpresa nascondeva solo un piccolo, elegante coltello dalla lama sottile.
Di nuovo mi sentii afferrare alle spalle; prima che me ne rendessi conto davvero, una vena del mio braccio destro era stata incisa. Con una mano lui tenne fermo il mio braccio mentre con l’altra raccoglieva in uno dei calici di cristallo il sangue che colava dalla ferita. Lo sentii inspirare e mormorare qualcosa, mentre la nausea mi travolgeva.
-Perdonami, Isabella… Avrei dovuto aspettare che fossi tu ad offrirmelo. Ma i ricordi perseguitano anche me, qualche volta.
Sempre reggendomi con un braccio, sollevò il calice col mio sangue contro la luce, poi se lo portò alle labbra.
Quando iniziò a bere, desiderai intensamente di morire.
Per un attimo ebbi la consolante sensazione di essere stata esaudita: il mondo fu inghiottito in un buco nero, ed io con lui.
-Bella?
Una voce di donna. Di donna, non di ragazza; una voce calda, piena di tenerezza.
-…Mamma?
-No, piccina. Apri gli occhi, guardami. Non sono tua madre. Ma ti voglio bene anch’io, sai? Come ti senti?
Apro gli occhi. La donna che mi guarda assomiglia a… Emily? No, a Leah…Nemmeno. E’ più bella di entrambe, anche se è più vecchia. Ha capelli lunghi e scuri raccolti in una coda legata di fianco, in modo che le ciocche le ricadano morbide sul petto. Ha ciglia incredibilmente lunghe, la bocca piena, gli occhi grandi e oblunghi, gli zigomi alti.
Indossa una camicia bianca e porta al collo una catenina sottile a piccoli cerchi, con un cammeo di turchese. Somiglia…
-Ascolta, Bella. Non devi avere paura. Lui non ti ucciderà né ti cambierà in uno di loro. Questo Freddo è il più antico della sua specie ma non ha mai visto nessuno come te; non si priverebbe del piacere di giocare con te. Non molto presto, comunque.
La donna mi accarezza il viso, la sua mano è lieve e calda. Il ricordo delle dita del vampiro sulla pelle mi colpisce per contrasto e io mi sento di nuovo morire.
-Devi essere forte, piccola. Lo so che è difficile, ma devi resistere. Fallo per loro. Devi farlo per loro…
La mano delicata e scura di questa donna passa sui miei occhi e io li vedo.
Jacob ed Elias.
Sono sdraiati sul pavimento in un mare di costruzioni di plastica colorata, su un tappeto. Elias cammina già; si solleva e va a sedersi sulla pancia di suo padre, inizia a saltellare, Jacob finge di soffocare. E ride, ride… E mio figlio ride con lui.
L’amore che provo per loro mi soffoca.
-Non piangere, guarda bene. Elias è cresciuto, non è vero?
-…cammina.
-Sì, cammina. Guarda ancora, Bella.
Jacob si volta come se avesse sentito un suono. Si gira verso la porta, che si apre. Entro… entro io. Sì, sono proprio io. Ma… quella pancia enorme?
-Sì, è proprio come pensi. Tu tornerai a casa, Bella.
La donna continua ad accarezzarmi. Sono di nuovo sospesa in un nulla lattiginoso.
Io che non credo a niente comincio a pregare.
Se ci sei, fammi tornare a casa. Cosa vuoi in cambio? Voglio tornare a casa. Prenditi gli anni della mia vita, li vuoi? A me ne bastano pochi, voglio che mio figlio sia grande abbastanza e poi ti puoi prendere tutto. Se il cielo non è vuoto…
-Io resterò con te, Bella. Sii forte e pensa a loro. Ora devo andare.
Un’ultima carezza e la mano calda mi lascia.
-Bella, il cielo non è vuoto. Tornerai a casa. Resisti. Resisti. Resisti…
Le mani che mi accarezzavano il viso divennero fredde. Aprii gli occhi.
Ero sdraiata sul grande letto a baldacchino; il braccio era stato fasciato.
In piedi accanto al letto, lui parlava, come da solo; passava le lunghe dita nei miei capelli. Di tanto in tanto mi sfioravano la fronte.
-…il dono di una prima volta, come una specie di verginità, piccola mia, l’emozione di non sapere. E’ stato quasi tremila anni fa. Forse ha ragione mio fratello, sto indulgendo in una debolezza. Ma perché non tentare? Mi amerai, lo so. Sarai uno scudo perfetto: vorrai dare la tua vita per me e non sarebbe un guadagno per tutti, questo? Non sarebbe forse bene? Ma ora riposa, mio gioiello. Veglierò su di te. Dormi tranquilla.
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