La copertina di questa settimana è di Lea_91 |
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo al tuo braccio;
perché questo amore è forte come la morte,
una fiamma del Signore.
(Cantico dei Cantici, 8, ver. 6)
-Fermati, Jake! Aspetta, mi sto ammazzando!
Il mio compagno pareva essersi scordato che le sue gambe erano di almeno una spanna -sua- più lunghe delle mie; camminava a passo di marcia e mi trascinava dietro di sé tenendomi per mano, la camicia spiegazzata abbottonata solo a metà, i capelli arruffati e un sorriso luminoso e persistente stampato sul viso. E io, che già avevo difficoltà di deambulazione quando mi concentravo, rischiavo di farmi davvero male perché non riuscivo a togliere gli occhi da lui.
E meno male che nessuno poteva leggere nella mia mente e prendermi in giro.
Era davvero così, Jacob? Lo era solo per me? Lo era sempre stato? Di sicuro erano nuovi gli occhi con cui lo guardavo, finalmente in grado di vedere quanto fosse... ecco, semplicemente stupendo -e arrossivo, anche se nessuno poteva leggere la mia mente- stupendo dentro e fuori e assolutamente perfetto per me.
La sua gioia era lampante, travolgente; mi avvolse ancora una volta, come succedeva sempre, e fece sentire perfetta anche me, come ogni giorno da quando stavamo davvero insieme.
-Non vuoi che lo diciamo subito ai vecchi?
Si fermò e con un bacio mi impedì di rispondere, poi mi prese in braccio e ricominciò a marciare come un marine in direzione della Golf parcheggiata poco lontano.
-Mh, sì. Ma prima è meglio se… Jake, fermati un attimo. C’è una cosa che ti devo spiegare meglio e devo farlo prima che lo diciamo a Billy e Charlie.
Inchiodò come una moto sulla sabbia; la mia voce tremava leggermente. Lo avevo messo in ansia. Ora avrei dovuto spiegargli cosa intendevo dire con “ voglio sposarmi in fretta”: cioè, come dire, molto in fretta. Nel giro di pochi giorni, insomma.
-Cosa c’è che non va, Bells? Non me la racconti giusta.
Certo che c’era qualcosa che non andava e non era cosa da poco; dovevo solo decidere su due piedi quanta verità gli avrei detto. Aveva senso spiegargli che temevo avessimo le ore contate? Quanto potevo essere sicura che il vecchio Quil fosse affidabile e i miei sogni significassero davvero qualcosa di più di una digestione pesante? D’altra parte non potevo semplicemente ignorarli; avevano avuto ragione più di una volta e ora erano le nostre vite ad essere in ballo.
“Sette giorni. Abbiamo solo sette giorni per prepararci”
Mi si riempirono gli occhi di lacrime.
-Ehi, piccola, cosa c’è? Va tutto bene?
Jake mi aveva posata a terra. Mi avvolse il viso nelle sue mani e mi guardò così intensamente, così pieno d’amore che mi sentii nuda e fragile e trasparente come il vetro, sotto ai suoi occhi, ma allo stesso tempo amata e protetta; sarebbe stato impossibile non dirgli tutto. Ma se davvero ero intenzionata a mettere in atto quello che mi frullava per la testa da qualche giorno, non dovevo tradirmi. Non avrebbe dovuto percepire completamente la gravità della situazione.
Io ero quasi sicura che avremmo perduto tutto molto presto, lui si godeva beato il suo solito inguaribile ottimismo. Era felice, forte, pieno di fiducia in se stesso e nei suoi amici. E anche un po’ spaccone e incosciente, ma questo non gliel’avrei fatto notare di nuovo, lo avevo già sgridato a sufficienza. Lui e gli altri ragazzi si sentivano quasi invincibili, soprattutto ora che l’alleanza coi Cullen aveva preso a funzionare e lupi e vampiri formavano un gruppo affiatato e pronto a tutto.
Avevo ragione di pensare che se anche avessi confidato a Jake le mie paure esattamente come le percepivo, non avrebbe dato loro molto peso. Comunque, mi sforzai di sorridere.
-Sai che sono stata dal vecchio Quil, ieri. C’era anche Leah. Noi…
Jacob mi aveva lasciato il viso e ascoltava con attenzione.
-Jake, ho paura. Ho paura… che non manchi tanto. Cioè… Leah ed io abbiamo sognato entrambe. Coincidenze, non lo so, ma incredibili coincidenze, e…
-Dimmi cosa hai sognato.
-Che verranno molto presto.
-Quanto presto?
-Sette soli. Nel mio sogno c’erano sette soli e io li guardavo con Harry Clearwater. In quello di Leah c’era ancora Harry e le diceva che non c’era tempo. Il nonno di Quil dice che abbiamo avuto la stessa visione, che, ehm, siamo state visitate da… dallo stesso… spirito. Mh, sì.
Ora mi guardava sconcertato. Aggrottò le sopracciglia e la sua espressione si indurì. La sua voce però era priva di spavalderia, quando parlò: forse mi aveva presa sul serio. Forse non pensava -almeno per il momento- che ero ancora più matta di Quil Ateara III.
-Saremo pronti. Devo parlare con Sam e con gli altri; forse ti sbagli, ma di questi tempi non sottovaluto niente e di cose strane ne abbiamo viste fin troppe, in giro, per permetterci di ridere dei sogni. Sette giorni… Vieni qui.
La sua pelle e io suo odore mi fecero stare subito meglio.
-Adesso ho capito tutto. Non riesco neanche a dirlo, Bells, ma credimi, ti ho capita. Voglio la stessa cosa, solo… mi spiace. Avrei voluto avere più tempo, farlo in modo diverso*, ma a quanto pare non è proprio destino fare le cose con calma, per noi due.
Deglutì e mi sembrò che il suo cuore battesse più in fretta; poi si staccò da me e il suo volto contratto e preoccupato si illuminò di nuovo di un sorriso, appena un po' malinconico.
-Vieni, voglio farti vedere una cosa.
Erano mesi, no, era più di un anno che non mettevo piede nella rimessa.
Jacob spinse la porta, accese una luce sotto alla quale la polvere danzava silenziosa e in un attimo il tempo si fermò, il nastro si avvolse all’indietro e il tempo trascorso fu come annullato. Il presente lasciò il posto ad un’altra di quelle visioni del passato che credevo perse, ormai irrecuperabili.
Non sono mai cambiata, negli anni che sono venuti dopo. Le emozioni mi hanno sempre travolta come la piena di un fiume, ingovernabili, soprattutto dopo la nascita di Elias. Soprattutto se si tratta di Jacob e me.
Non fu strano quello che mi successe, non fu strano rivivere di nuovo tutto dal principio in pochi secondi ed essere di nuovo trafitta dai dolori che di sicuro mi avevano fatta crescere, ma mi avevano anche quasi uccisa.
La perdita di Edward e la voragine nel petto, il calore di Jacob, ritorni e altre perdite, nascite ed addii; tutto mi piovve di nuovo addosso nello stesso momento.
Jacob se ne accorse e mi diede il tempo di riprendermi: in piedi alle mie spalle, si chinò su di me, mi strinse contro il suo corpo e attese in silenzio che ritrovassi la forza di parlare. Fu la sua voce, però, a risuonare per prima nel silenzio polveroso del posto che era stato il nostro primo rifugio.
-Lo so. Ha fatto male anche a me la prima volta che ci sono tornato. Ma adesso va tutto bene, piccola. E vedrai… Un giorno andrà bene per tutti. Andrà tutto bene. Andrà tutto bene, vedrai.
Mi stringeva e mi cullava, dolce come solo un montagna di muscoli dall’aria pericolosa può essere; poi mi prese per mano e mi accompagnò vicino a quello che assomigliava, più o meno, a un tornio da vasaio, dove uno straccio che una volta doveva essere stato una camicia copriva un oggetto delle dimensioni di una scatola di cioccolatini.
Quando Jacob lo scoprì, potei constatare che si trattava effettivamente di una scatola, ma quella fu solo la prima impressione. “Scatola” era solo una parola vuota e priva di significato, e non bastava nemmeno lontanamente per descrivere la storia d’amore che potevo leggere scritta nel legno, intagliata da mani che non sapevo se più forti o più sapienti.
Un gioco di chiaroscuri –come aveva fatto, Jacob, a scurire il colore del legno? Forse erano intarsi?- dava vita a una serie di figure intrecciate, alcune piatte ed altre in rilievo, come su piani differenti; erano così vive che parevano muoversi e quasi mi si fermò il cuore quando mi resi conto che al centro stavano tre figure che conoscevo bene. Un uomo, una donna e un bambino.
E’ vero, sono facile ad andare in pezzi, ma credo che chiunque a quel punto si sarebbe zittito; quanto a me, dovetti tacere per qualche minuto perché avevo deciso che non volevo assolutamente piangere. Non era possibile che non fossi capace di fare altro, che non trovassi un modo decente e comprensibile per far sapere a Jacob quello che mi aveva fatto. Mi aveva raggiunto l’anima, ancora una volta; era arrivato dentro di me, profondamente, come quando facevamo l'amore. E ancora una volta mi aveva sconvolta.
Trattenni il fiato. Cercavo di restare tranquilla e far scorrere l'emozione senza esplodere, mano a mano che ricostruivo la storia incisa su quel pezzo di legno e leggevo i sogni come scritti su un diario segreto, ma allo stesso tempo divenuti veri e vivi sotto le sue dita.
La sagoma elegante di un cigno nero. Un lupo rossiccio su una rupe, uomini e donne, bambini, il profilo delle isole e della costa rocciosa visibili da First Beach; una luna, un sole e una stella, arco e frecce, un fuoco. Il profilo rugoso di un vecchio, un bellissimo corpo di donna, un’aquila, piume nel vento. E spazi vuoti armoniosamente lasciati liberi, credo pronti a riempirsi man mano che la storia, la nostra storia, fosse continuata.
-Quando l’ho cominciato non sapevo nemmeno cosa stavo facendo e perché. Ma posso dire che… Beh, posso dire che… non so, forse in realtà lo sapevo già.
Era un sapore dolceamaro, gioia mista a dolore ripensare alla nostra storia, e forse non era sbagliato averla incisa sul legno; la sua bellezza nasceva dai tagli lasciati da una lama e così era stato per noi, perché la felicità di adesso era nata come da profonde ferite nella carne. Mi arresi. Non riuscivo a trovare parole sufficienti, così lasciai che le lacrime scendessero liberamente e non erano poi tanto male, credo. Se la cavarono meglio di una frase perfetta.
Non facevano male ed erano solo tanto dolci.
-Smettila di piangere, però, altrimenti comincio anch’io- mi provocò Jacob, mentre mi nascondevo tra la sua camicia e il suo petto.
-Ok. Così a occhio e croce direi che ti piace. E’ tua, sai? Dentro c’è una cosa per te. Se non l'hanno rubata... è lì da un sacco di tempo.
Immaginavo Jacob intento al lavoro sotto la luce della lampada, stanco, ferito, qualche volta arrabbiato o triste, a disegnare noi due e nostro figlio forse molto prima che il “noi” diventasse qualcosa di vero. Mi chiedevo quante ore dovevano essere state necessarie per creare un simile capolavoro e quanto…
Le lacrime scendevano, semplici e perfette.
Va bene così.
-Ci sono un paio di problemi, Bells.
No, solo uno. Non ti meriterò mai.
-Spa… Spara.
-Il primo è che sposi uno spiantato, lo sai, vero?
-Tu non sei uno spiantato. Sei il miglior meccanico mutante che io abbia mai incontrato sulla faccia della terra.
-Nonché l’unico, credo. Però… Conto di combinare qualcosa di meglio, prima o poi. Solo che volevo prima combinare qualcosa e poichiederti di sposarmi, ecco. Così devo per forza chiederti di fidarti di me e resta il fatto che attualmente sono solo…
-…il mio amore. Stai zitto, stai dicendo delle cretinate.
-Però, guarda. Vedi questa?
Allungò un braccio e afferrò il telo rosso che copriva un’auto della quale indovinavo, sotto il tessuto, la linea bombata ed elegante. Non ci avevo fatto caso subito, ma era stato fatto spazio, nella tana di Jake; c’erano un paio di scaffali che accoglievano tutti gli attrezzi e le cianfrusaglie che prima ingombravano il pavimento, e su un lato le nostre due moto. Al posto della Golf c'era, appunto, quest’altra macchina che spiccava sullo sfondo come una signora in tailleur in un cortile pieno di galline.
Quando Jake la scoprì, si rivelò essere una magnifica auto sportiva: italiana, a quanto leggevo. Sembrò bellissima anche a me che macchine non ne capivo un'acca.
-E’ un’Alfa Romeo 8C Spider. Un gioiello di meccanica, Bella, roba da collezionisti. Ce ne sono solo cinquecento in tutto il mondo. Il proprietario è un riccone che ha una villa qui attorno e l’ha portata da Dowling, che ovviamente non ha idea di dove mettere le mani… Ne ha parlato a mio padre che era lì per caso, poi ovviamente papà ha fatto il mio nome, il tipo ha acconsentito a provare ed eccola qua. Si tratta di ripararla e poi, ehm, darle un po’ di vitamine.
-Forse è meglio se non mi dai i dettagli, Jake.
-Non le farò niente di molto illegale, Bells, non è neanche così semplice. Dovrò appoggiarmi al vecchio Dow per certe attrezzature e mi toccherà lasciare una fetta della torta anche a lui. Però… metti che il tipo sia soddisfatto, metti che passi parola ai suoi amici… Non so, potrebbe essere un inizio.
-Ma ti paga?
-E vorrei anche vedere. Sono settemila dollari esclusi i ricambi, se va tutto bene.
-…Accidenti! Ok, va bene. Ti sposerò per interesse.
Scoppiò a ridere, mi abbracciò sollevandomi e mi sedette di peso sul cofano della macchina.
-…il secondo problema?
-…sono minorenne. Per sposarti devo farmi firmare un permesso da Billy, ma non credo che farà storie- mormorò sulla mia bocca, giusto un attimo prima di baciarmi.
Non ero mai stata un tipo “freddo”, non in quel senso, ma ancora mi stupivo della pura semplicità con la quale il mio corpo rispondeva alle mani di Jacob. C'ero quasi cascata: mi persi ad ascoltare quelle sue mani sempre calde che scorrevano sulle cosce, sollevavano il vestito e-
-Jake! Cosa stai facendo?
-Mmmmh. Nei film lo fanno. Dev'essere figo, no?
-...Che. Cavolo. Di film. Guardi? Dobbiamo andare da Charlie!
Il cofanetto intagliato da Jacob conteneva un astuccio di velluto nero e quello a sua volta conteneva un anello, una semplice fedina d’oro bianco, lucida e liscia; nelle intenzioni del mio ragazzo avrebbe dovuto essere una via di mezzo tra un anello di fidanzamento ed un anello nuziale, ma io gli proposi di tenerlo e mettermelo al dito quando –ancora non riuscivo a dirlo- quando, pochi giorni dopo, avremmo fatto quella pazzia.
A proposito dei nostri genitori, Jake ed io avevamo stabilito di non dare troppe spiegazioni a Charlie; non c’era una sola ragione utilizzabile per giustificare tutta la fretta che avevamo, quindi avremmo detto il meno possibile sperando che papà non si incaponisse in un interrogatorio inutile. Lui invece ci sorprese: non chiese assolutamente nulla se non il luogo, il giorno, l’ora e se avevamo bisogno di qualcosa.
A posteriori credo che fosse tutto molto logico. Charlie non sopportava più che stessi con Jacob e avessi un figlio da lui senza essere sua moglie; di tanto in tanto, col baffo tremante di rabbia, lanciava frecciate al mio compagno accusandolo di non volersi prendere le sue responsabilità. Fingendo di dimenticare che a me, in passato, veniva l’orticaria solo a sentire la parola “matrimonio”. Probabilmente non chiedeva di meglio che mi risposassi in fretta e si affrettò a comunicarci la sua approvazione, nel timore che potessi cambiare idea.
Per quanto riguarda Billy, beh... Jacob gli mise sotto il naso il modulo del consenso.
-Papà, firma qui.
-Che cosa è, Jake?
-L’autorizzazione a sposare Bella.
-Ah. Lo avete detto a Charlie?
-Sì.
-Sei di nuovo incinta, cara?
-No! Certo che no!
-Certo che no, papà, per chi mi hai preso?
-Sì, va bene. Mi passi quella biro, per favore?
Fu veloce e surreale. Surreale, ma bello**.
Avere un padre poliziotto serve a qualcosa, qualche volta; in tre giorni riuscimmo ad avere la licenza matrimoniale, il permesso per Jacob e anche l’autorizzazione a celebrare proprio dove ci sarebbe piaciuto. Non ero invece molto contenta di chi avrebbe officiato il rito: sfortunatamente sarebbe stato di nuovo il reverendo Weber, il padre di Angela, e io mi vergognavo come una ladra.
Due volte. In poco più di un anno. Con un marito diverso.
C’era di che seppellirsi, oppure ridere fino alle lacrime come faceva Jake.
Almeno c'era stato un risvolto positivo: avevo guadagnato una damigella.
Non avevo più avuto contatti con i miei amici di prima del matrimonio. I miei compagni del liceo se ne erano andati tutti al college, ma anche se non fosse stato così non avrei mai avuto il coraggio di cercarli: un fallimento è un fallimento e io non andavo per niente fiera di come era andata tutta la faccenda con Edward. Al contrario, me ne vergognavo moltissimo e non avevo voglia di incontrare nessuno che avesse vissuto l’intera storia con me; sarebbe stato inevitabile venire sottoposta ad un penoso interrogatorio.
Angela Weber era l’unica tra le mie compagne che mi era mancata davvero: lei probabilmente non avrebbe nemmeno posto domande imbarazzanti o sputato sentenze su quel che avevo combinato, così fu una bellissima sorpresa sapere che era tornata dal college per le vacanze estive. Suo padre l’aveva informata del mio, ehm, secondo matrimonio e lei non vedeva l’ora di incontrarmi.
Seppi che lei e Ben si erano lasciati, che stava bene e che studiava Letteratura; era stata ammessa a Stanford e questo aveva dato il colpo di grazia a un legame che, mi confessò, gli stava già un po’ stretto. Quando le presentai Jacob ed Elias sgranò gli occhi e non riuscii a capire con certezza chi dei due le fosse piaciuto di più; mi disse con gli occhi lucidi che era molto felice per me e che mi avrebbe fatto da damigella, ma solo se avessi promesso di lanciare il mio bouquet esattamente nelle sue mani. Per dirla tutta, mi chiese anche come stavamo messe a ragazzi liberi, nella Riserva.
L’avevo avuto, era stato bello ed importante; era stato un bel sogno ed ora era un ricordo luminoso e pungente al tempo stesso. Prima o poi sarei anche riuscita a perdonarmi, forse, e allora il ricordo sarebbe stato solo dolce.
Avevo avuto la favola, ora invece non mi importava di nient’altro che riuscire a dire quelle parole a Jacob e sentirmele dire da lui: quelle due parole, il per sempre che mi fuggiva dalle mani ad ogni minuto che passava.
Non c’è tempo, continuavo a pensare. Non c'è tempo.
Non ero triste o disperata; non avevo ancora chiaro a cosa stavo andando incontro oppure, semplicemente, era la mia mente che si rifiutava di prenderne atto. Con la mia solita incoscienza, semplicemente dimenticai tutto il resto e mi concentrai sul giorno, l’ora e il luogo a cui volevo arrivare, tesa come un freccia sull’arco.
C’erano mille piccole cose pratiche a cui pensare, anche per un matrimonio così improvvisato e semplice come lo avevamo voluto Jacob ed io; questo mi fece ricordare con affetto di Alice e di tutte le incombenze di cui si era fatta carico con gioia e generosità. Da parte mia tagliai spietatamente tutto ciò che era inutile o che avrebbe potuto ritardare anche solo di un’ora la cerimonia.
Così toccò ad Emily, dopo che le mie ricerche mi avevano già portato via troppo tempo per i miei gusti, prestarmi un vestito dei suoi, un abito estivo di piquet bianco che su di me era lungo esattamente quanto serviva. Era una specie di sottoveste appartenuta alla sua bisnonna ed assomigliava ad un vestitino che portavo da bambina; quando lo indossai mi fece sentire innocente come avrei voluto essere, come se la mia vita non fosse mai iniziata e stesse cominciando solo in quel momento. Era esattamente così che mi sentivo vicino a Jacob.
Furono di nuovo Emily con Kim e Leah ad aiutarmi a raccogliere i capelli e ad infilarci dei fiori selvatici, che Lee aveva portato da non so quale prato su per la montagna; permisi loro di truccarmi leggermente e di mettermi al collo un filo di perle che qualcuno mi aveva prestato.
E no, non fu Charlie ad accompagnarmi all’altare, questa volta.
Papà mi venne solo a prendere in macchina –non quella della polizia, per fortuna- per accompagnarmi alla piccola chiesa di St. Christopher, una costruzione in legno e pietra circondata dalla foresta, edificata dai missionari nei pressi di un antico cimitero indiano. Sembrava un luogo magico e a Jake e me era venuta subito in mente, anche perché ci piaceva la storia del santo cui era dedicata, quello che portava in braccio il Bambino.
Sembrava che fossi pronta ad uscire di casa quando mi accorsi che mi mancava ancora qualcosa. Sapevo esattamente dov’era e non impiegai molto a staccarlo dalla culla di Elias, dove lo avevo appeso quando ancora non sapevo se mio figlio avrebbe mai conosciuto suo padre.
Rimisi al suo posto il bracciale col piccolo lupo di legno, tra le proteste delle mie amiche che mi facevano notare che c'entrava col resto come i cavoli a merenda. Non me ne sarebbe potuto importare di meno.
Lo rimisi al polso; lì avrebbe dovuto restare per tutto il resto della mia vita.
Era forte e chiara e vibrava come le campane, il cui rintocco può coprire distanze inimmaginabili.
La voce di Jacob mi avvolse il cuore, riempì la chiesa, risalì la montagna e, ne sono sicura, arrivò fino al mare e ancora più lontano.
Sapevo con certezza che questa volta sarebbe stato per sempre.
Il mio compagno pareva essersi scordato che le sue gambe erano di almeno una spanna -sua- più lunghe delle mie; camminava a passo di marcia e mi trascinava dietro di sé tenendomi per mano, la camicia spiegazzata abbottonata solo a metà, i capelli arruffati e un sorriso luminoso e persistente stampato sul viso. E io, che già avevo difficoltà di deambulazione quando mi concentravo, rischiavo di farmi davvero male perché non riuscivo a togliere gli occhi da lui.
E meno male che nessuno poteva leggere nella mia mente e prendermi in giro.
Era davvero così, Jacob? Lo era solo per me? Lo era sempre stato? Di sicuro erano nuovi gli occhi con cui lo guardavo, finalmente in grado di vedere quanto fosse... ecco, semplicemente stupendo -e arrossivo, anche se nessuno poteva leggere la mia mente- stupendo dentro e fuori e assolutamente perfetto per me.
La sua gioia era lampante, travolgente; mi avvolse ancora una volta, come succedeva sempre, e fece sentire perfetta anche me, come ogni giorno da quando stavamo davvero insieme.
-Non vuoi che lo diciamo subito ai vecchi?
Si fermò e con un bacio mi impedì di rispondere, poi mi prese in braccio e ricominciò a marciare come un marine in direzione della Golf parcheggiata poco lontano.
-Mh, sì. Ma prima è meglio se… Jake, fermati un attimo. C’è una cosa che ti devo spiegare meglio e devo farlo prima che lo diciamo a Billy e Charlie.
Inchiodò come una moto sulla sabbia; la mia voce tremava leggermente. Lo avevo messo in ansia. Ora avrei dovuto spiegargli cosa intendevo dire con “ voglio sposarmi in fretta”: cioè, come dire, molto in fretta. Nel giro di pochi giorni, insomma.
-Cosa c’è che non va, Bells? Non me la racconti giusta.
Certo che c’era qualcosa che non andava e non era cosa da poco; dovevo solo decidere su due piedi quanta verità gli avrei detto. Aveva senso spiegargli che temevo avessimo le ore contate? Quanto potevo essere sicura che il vecchio Quil fosse affidabile e i miei sogni significassero davvero qualcosa di più di una digestione pesante? D’altra parte non potevo semplicemente ignorarli; avevano avuto ragione più di una volta e ora erano le nostre vite ad essere in ballo.
“Sette giorni. Abbiamo solo sette giorni per prepararci”
Mi si riempirono gli occhi di lacrime.
-Ehi, piccola, cosa c’è? Va tutto bene?
Jake mi aveva posata a terra. Mi avvolse il viso nelle sue mani e mi guardò così intensamente, così pieno d’amore che mi sentii nuda e fragile e trasparente come il vetro, sotto ai suoi occhi, ma allo stesso tempo amata e protetta; sarebbe stato impossibile non dirgli tutto. Ma se davvero ero intenzionata a mettere in atto quello che mi frullava per la testa da qualche giorno, non dovevo tradirmi. Non avrebbe dovuto percepire completamente la gravità della situazione.
Io ero quasi sicura che avremmo perduto tutto molto presto, lui si godeva beato il suo solito inguaribile ottimismo. Era felice, forte, pieno di fiducia in se stesso e nei suoi amici. E anche un po’ spaccone e incosciente, ma questo non gliel’avrei fatto notare di nuovo, lo avevo già sgridato a sufficienza. Lui e gli altri ragazzi si sentivano quasi invincibili, soprattutto ora che l’alleanza coi Cullen aveva preso a funzionare e lupi e vampiri formavano un gruppo affiatato e pronto a tutto.
Avevo ragione di pensare che se anche avessi confidato a Jake le mie paure esattamente come le percepivo, non avrebbe dato loro molto peso. Comunque, mi sforzai di sorridere.
-Sai che sono stata dal vecchio Quil, ieri. C’era anche Leah. Noi…
Jacob mi aveva lasciato il viso e ascoltava con attenzione.
-Jake, ho paura. Ho paura… che non manchi tanto. Cioè… Leah ed io abbiamo sognato entrambe. Coincidenze, non lo so, ma incredibili coincidenze, e…
-Dimmi cosa hai sognato.
-Che verranno molto presto.
-Quanto presto?
-Sette soli. Nel mio sogno c’erano sette soli e io li guardavo con Harry Clearwater. In quello di Leah c’era ancora Harry e le diceva che non c’era tempo. Il nonno di Quil dice che abbiamo avuto la stessa visione, che, ehm, siamo state visitate da… dallo stesso… spirito. Mh, sì.
Ora mi guardava sconcertato. Aggrottò le sopracciglia e la sua espressione si indurì. La sua voce però era priva di spavalderia, quando parlò: forse mi aveva presa sul serio. Forse non pensava -almeno per il momento- che ero ancora più matta di Quil Ateara III.
-Saremo pronti. Devo parlare con Sam e con gli altri; forse ti sbagli, ma di questi tempi non sottovaluto niente e di cose strane ne abbiamo viste fin troppe, in giro, per permetterci di ridere dei sogni. Sette giorni… Vieni qui.
La sua pelle e io suo odore mi fecero stare subito meglio.
-Adesso ho capito tutto. Non riesco neanche a dirlo, Bells, ma credimi, ti ho capita. Voglio la stessa cosa, solo… mi spiace. Avrei voluto avere più tempo, farlo in modo diverso*, ma a quanto pare non è proprio destino fare le cose con calma, per noi due.
Deglutì e mi sembrò che il suo cuore battesse più in fretta; poi si staccò da me e il suo volto contratto e preoccupato si illuminò di nuovo di un sorriso, appena un po' malinconico.
-Vieni, voglio farti vedere una cosa.
* * *
Jacob spinse la porta, accese una luce sotto alla quale la polvere danzava silenziosa e in un attimo il tempo si fermò, il nastro si avvolse all’indietro e il tempo trascorso fu come annullato. Il presente lasciò il posto ad un’altra di quelle visioni del passato che credevo perse, ormai irrecuperabili.
Non sono mai cambiata, negli anni che sono venuti dopo. Le emozioni mi hanno sempre travolta come la piena di un fiume, ingovernabili, soprattutto dopo la nascita di Elias. Soprattutto se si tratta di Jacob e me.
Non fu strano quello che mi successe, non fu strano rivivere di nuovo tutto dal principio in pochi secondi ed essere di nuovo trafitta dai dolori che di sicuro mi avevano fatta crescere, ma mi avevano anche quasi uccisa.
La perdita di Edward e la voragine nel petto, il calore di Jacob, ritorni e altre perdite, nascite ed addii; tutto mi piovve di nuovo addosso nello stesso momento.
Jacob se ne accorse e mi diede il tempo di riprendermi: in piedi alle mie spalle, si chinò su di me, mi strinse contro il suo corpo e attese in silenzio che ritrovassi la forza di parlare. Fu la sua voce, però, a risuonare per prima nel silenzio polveroso del posto che era stato il nostro primo rifugio.
-Lo so. Ha fatto male anche a me la prima volta che ci sono tornato. Ma adesso va tutto bene, piccola. E vedrai… Un giorno andrà bene per tutti. Andrà tutto bene. Andrà tutto bene, vedrai.
Mi stringeva e mi cullava, dolce come solo un montagna di muscoli dall’aria pericolosa può essere; poi mi prese per mano e mi accompagnò vicino a quello che assomigliava, più o meno, a un tornio da vasaio, dove uno straccio che una volta doveva essere stato una camicia copriva un oggetto delle dimensioni di una scatola di cioccolatini.
Quando Jacob lo scoprì, potei constatare che si trattava effettivamente di una scatola, ma quella fu solo la prima impressione. “Scatola” era solo una parola vuota e priva di significato, e non bastava nemmeno lontanamente per descrivere la storia d’amore che potevo leggere scritta nel legno, intagliata da mani che non sapevo se più forti o più sapienti.
Un gioco di chiaroscuri –come aveva fatto, Jacob, a scurire il colore del legno? Forse erano intarsi?- dava vita a una serie di figure intrecciate, alcune piatte ed altre in rilievo, come su piani differenti; erano così vive che parevano muoversi e quasi mi si fermò il cuore quando mi resi conto che al centro stavano tre figure che conoscevo bene. Un uomo, una donna e un bambino.
E’ vero, sono facile ad andare in pezzi, ma credo che chiunque a quel punto si sarebbe zittito; quanto a me, dovetti tacere per qualche minuto perché avevo deciso che non volevo assolutamente piangere. Non era possibile che non fossi capace di fare altro, che non trovassi un modo decente e comprensibile per far sapere a Jacob quello che mi aveva fatto. Mi aveva raggiunto l’anima, ancora una volta; era arrivato dentro di me, profondamente, come quando facevamo l'amore. E ancora una volta mi aveva sconvolta.
Trattenni il fiato. Cercavo di restare tranquilla e far scorrere l'emozione senza esplodere, mano a mano che ricostruivo la storia incisa su quel pezzo di legno e leggevo i sogni come scritti su un diario segreto, ma allo stesso tempo divenuti veri e vivi sotto le sue dita.
La sagoma elegante di un cigno nero. Un lupo rossiccio su una rupe, uomini e donne, bambini, il profilo delle isole e della costa rocciosa visibili da First Beach; una luna, un sole e una stella, arco e frecce, un fuoco. Il profilo rugoso di un vecchio, un bellissimo corpo di donna, un’aquila, piume nel vento. E spazi vuoti armoniosamente lasciati liberi, credo pronti a riempirsi man mano che la storia, la nostra storia, fosse continuata.
-Quando l’ho cominciato non sapevo nemmeno cosa stavo facendo e perché. Ma posso dire che… Beh, posso dire che… non so, forse in realtà lo sapevo già.
Era un sapore dolceamaro, gioia mista a dolore ripensare alla nostra storia, e forse non era sbagliato averla incisa sul legno; la sua bellezza nasceva dai tagli lasciati da una lama e così era stato per noi, perché la felicità di adesso era nata come da profonde ferite nella carne. Mi arresi. Non riuscivo a trovare parole sufficienti, così lasciai che le lacrime scendessero liberamente e non erano poi tanto male, credo. Se la cavarono meglio di una frase perfetta.
Non facevano male ed erano solo tanto dolci.
-Smettila di piangere, però, altrimenti comincio anch’io- mi provocò Jacob, mentre mi nascondevo tra la sua camicia e il suo petto.
-Ok. Così a occhio e croce direi che ti piace. E’ tua, sai? Dentro c’è una cosa per te. Se non l'hanno rubata... è lì da un sacco di tempo.
Immaginavo Jacob intento al lavoro sotto la luce della lampada, stanco, ferito, qualche volta arrabbiato o triste, a disegnare noi due e nostro figlio forse molto prima che il “noi” diventasse qualcosa di vero. Mi chiedevo quante ore dovevano essere state necessarie per creare un simile capolavoro e quanto…
Le lacrime scendevano, semplici e perfette.
Va bene così.
-Ci sono un paio di problemi, Bells.
No, solo uno. Non ti meriterò mai.
-Spa… Spara.
-Il primo è che sposi uno spiantato, lo sai, vero?
-Tu non sei uno spiantato. Sei il miglior meccanico mutante che io abbia mai incontrato sulla faccia della terra.
-Nonché l’unico, credo. Però… Conto di combinare qualcosa di meglio, prima o poi. Solo che volevo prima combinare qualcosa e poichiederti di sposarmi, ecco. Così devo per forza chiederti di fidarti di me e resta il fatto che attualmente sono solo…
-…il mio amore. Stai zitto, stai dicendo delle cretinate.
-Però, guarda. Vedi questa?
Allungò un braccio e afferrò il telo rosso che copriva un’auto della quale indovinavo, sotto il tessuto, la linea bombata ed elegante. Non ci avevo fatto caso subito, ma era stato fatto spazio, nella tana di Jake; c’erano un paio di scaffali che accoglievano tutti gli attrezzi e le cianfrusaglie che prima ingombravano il pavimento, e su un lato le nostre due moto. Al posto della Golf c'era, appunto, quest’altra macchina che spiccava sullo sfondo come una signora in tailleur in un cortile pieno di galline.
Quando Jake la scoprì, si rivelò essere una magnifica auto sportiva: italiana, a quanto leggevo. Sembrò bellissima anche a me che macchine non ne capivo un'acca.
-E’ un’Alfa Romeo 8C Spider. Un gioiello di meccanica, Bella, roba da collezionisti. Ce ne sono solo cinquecento in tutto il mondo. Il proprietario è un riccone che ha una villa qui attorno e l’ha portata da Dowling, che ovviamente non ha idea di dove mettere le mani… Ne ha parlato a mio padre che era lì per caso, poi ovviamente papà ha fatto il mio nome, il tipo ha acconsentito a provare ed eccola qua. Si tratta di ripararla e poi, ehm, darle un po’ di vitamine.
-Forse è meglio se non mi dai i dettagli, Jake.
-Non le farò niente di molto illegale, Bells, non è neanche così semplice. Dovrò appoggiarmi al vecchio Dow per certe attrezzature e mi toccherà lasciare una fetta della torta anche a lui. Però… metti che il tipo sia soddisfatto, metti che passi parola ai suoi amici… Non so, potrebbe essere un inizio.
-Ma ti paga?
-E vorrei anche vedere. Sono settemila dollari esclusi i ricambi, se va tutto bene.
-…Accidenti! Ok, va bene. Ti sposerò per interesse.
Scoppiò a ridere, mi abbracciò sollevandomi e mi sedette di peso sul cofano della macchina.
-…il secondo problema?
-…sono minorenne. Per sposarti devo farmi firmare un permesso da Billy, ma non credo che farà storie- mormorò sulla mia bocca, giusto un attimo prima di baciarmi.
Non ero mai stata un tipo “freddo”, non in quel senso, ma ancora mi stupivo della pura semplicità con la quale il mio corpo rispondeva alle mani di Jacob. C'ero quasi cascata: mi persi ad ascoltare quelle sue mani sempre calde che scorrevano sulle cosce, sollevavano il vestito e-
-Jake! Cosa stai facendo?
-Mmmmh. Nei film lo fanno. Dev'essere figo, no?
-...Che. Cavolo. Di film. Guardi? Dobbiamo andare da Charlie!
* * *
Il cofanetto intagliato da Jacob conteneva un astuccio di velluto nero e quello a sua volta conteneva un anello, una semplice fedina d’oro bianco, lucida e liscia; nelle intenzioni del mio ragazzo avrebbe dovuto essere una via di mezzo tra un anello di fidanzamento ed un anello nuziale, ma io gli proposi di tenerlo e mettermelo al dito quando –ancora non riuscivo a dirlo- quando, pochi giorni dopo, avremmo fatto quella pazzia.
A proposito dei nostri genitori, Jake ed io avevamo stabilito di non dare troppe spiegazioni a Charlie; non c’era una sola ragione utilizzabile per giustificare tutta la fretta che avevamo, quindi avremmo detto il meno possibile sperando che papà non si incaponisse in un interrogatorio inutile. Lui invece ci sorprese: non chiese assolutamente nulla se non il luogo, il giorno, l’ora e se avevamo bisogno di qualcosa.
A posteriori credo che fosse tutto molto logico. Charlie non sopportava più che stessi con Jacob e avessi un figlio da lui senza essere sua moglie; di tanto in tanto, col baffo tremante di rabbia, lanciava frecciate al mio compagno accusandolo di non volersi prendere le sue responsabilità. Fingendo di dimenticare che a me, in passato, veniva l’orticaria solo a sentire la parola “matrimonio”. Probabilmente non chiedeva di meglio che mi risposassi in fretta e si affrettò a comunicarci la sua approvazione, nel timore che potessi cambiare idea.
Per quanto riguarda Billy, beh... Jacob gli mise sotto il naso il modulo del consenso.
-Papà, firma qui.
-Che cosa è, Jake?
-L’autorizzazione a sposare Bella.
-Ah. Lo avete detto a Charlie?
-Sì.
-Sei di nuovo incinta, cara?
-No! Certo che no!
-Certo che no, papà, per chi mi hai preso?
-Sì, va bene. Mi passi quella biro, per favore?
Fu veloce e surreale. Surreale, ma bello**.
Avere un padre poliziotto serve a qualcosa, qualche volta; in tre giorni riuscimmo ad avere la licenza matrimoniale, il permesso per Jacob e anche l’autorizzazione a celebrare proprio dove ci sarebbe piaciuto. Non ero invece molto contenta di chi avrebbe officiato il rito: sfortunatamente sarebbe stato di nuovo il reverendo Weber, il padre di Angela, e io mi vergognavo come una ladra.
Due volte. In poco più di un anno. Con un marito diverso.
C’era di che seppellirsi, oppure ridere fino alle lacrime come faceva Jake.
Almeno c'era stato un risvolto positivo: avevo guadagnato una damigella.
Non avevo più avuto contatti con i miei amici di prima del matrimonio. I miei compagni del liceo se ne erano andati tutti al college, ma anche se non fosse stato così non avrei mai avuto il coraggio di cercarli: un fallimento è un fallimento e io non andavo per niente fiera di come era andata tutta la faccenda con Edward. Al contrario, me ne vergognavo moltissimo e non avevo voglia di incontrare nessuno che avesse vissuto l’intera storia con me; sarebbe stato inevitabile venire sottoposta ad un penoso interrogatorio.
Angela Weber era l’unica tra le mie compagne che mi era mancata davvero: lei probabilmente non avrebbe nemmeno posto domande imbarazzanti o sputato sentenze su quel che avevo combinato, così fu una bellissima sorpresa sapere che era tornata dal college per le vacanze estive. Suo padre l’aveva informata del mio, ehm, secondo matrimonio e lei non vedeva l’ora di incontrarmi.
Seppi che lei e Ben si erano lasciati, che stava bene e che studiava Letteratura; era stata ammessa a Stanford e questo aveva dato il colpo di grazia a un legame che, mi confessò, gli stava già un po’ stretto. Quando le presentai Jacob ed Elias sgranò gli occhi e non riuscii a capire con certezza chi dei due le fosse piaciuto di più; mi disse con gli occhi lucidi che era molto felice per me e che mi avrebbe fatto da damigella, ma solo se avessi promesso di lanciare il mio bouquet esattamente nelle sue mani. Per dirla tutta, mi chiese anche come stavamo messe a ragazzi liberi, nella Riserva.
* * *
Avevo già avuto quello che le bambine sognano quando vestono la Barbie Sposa: il bel vestito bianco con il lungo velo vaporoso, il bouquet di rose, la passeggiata da principessa sul tappeto rosso al braccio di un padre orgoglioso e raggiante. E Il principe azzurro in trepidante attesa sotto un’arcata di fiori.L’avevo avuto, era stato bello ed importante; era stato un bel sogno ed ora era un ricordo luminoso e pungente al tempo stesso. Prima o poi sarei anche riuscita a perdonarmi, forse, e allora il ricordo sarebbe stato solo dolce.
Avevo avuto la favola, ora invece non mi importava di nient’altro che riuscire a dire quelle parole a Jacob e sentirmele dire da lui: quelle due parole, il per sempre che mi fuggiva dalle mani ad ogni minuto che passava.
Non c’è tempo, continuavo a pensare. Non c'è tempo.
Non ero triste o disperata; non avevo ancora chiaro a cosa stavo andando incontro oppure, semplicemente, era la mia mente che si rifiutava di prenderne atto. Con la mia solita incoscienza, semplicemente dimenticai tutto il resto e mi concentrai sul giorno, l’ora e il luogo a cui volevo arrivare, tesa come un freccia sull’arco.
C’erano mille piccole cose pratiche a cui pensare, anche per un matrimonio così improvvisato e semplice come lo avevamo voluto Jacob ed io; questo mi fece ricordare con affetto di Alice e di tutte le incombenze di cui si era fatta carico con gioia e generosità. Da parte mia tagliai spietatamente tutto ciò che era inutile o che avrebbe potuto ritardare anche solo di un’ora la cerimonia.
Così toccò ad Emily, dopo che le mie ricerche mi avevano già portato via troppo tempo per i miei gusti, prestarmi un vestito dei suoi, un abito estivo di piquet bianco che su di me era lungo esattamente quanto serviva. Era una specie di sottoveste appartenuta alla sua bisnonna ed assomigliava ad un vestitino che portavo da bambina; quando lo indossai mi fece sentire innocente come avrei voluto essere, come se la mia vita non fosse mai iniziata e stesse cominciando solo in quel momento. Era esattamente così che mi sentivo vicino a Jacob.
Furono di nuovo Emily con Kim e Leah ad aiutarmi a raccogliere i capelli e ad infilarci dei fiori selvatici, che Lee aveva portato da non so quale prato su per la montagna; permisi loro di truccarmi leggermente e di mettermi al collo un filo di perle che qualcuno mi aveva prestato.
E no, non fu Charlie ad accompagnarmi all’altare, questa volta.
Papà mi venne solo a prendere in macchina –non quella della polizia, per fortuna- per accompagnarmi alla piccola chiesa di St. Christopher, una costruzione in legno e pietra circondata dalla foresta, edificata dai missionari nei pressi di un antico cimitero indiano. Sembrava un luogo magico e a Jake e me era venuta subito in mente, anche perché ci piaceva la storia del santo cui era dedicata, quello che portava in braccio il Bambino.
Sembrava che fossi pronta ad uscire di casa quando mi accorsi che mi mancava ancora qualcosa. Sapevo esattamente dov’era e non impiegai molto a staccarlo dalla culla di Elias, dove lo avevo appeso quando ancora non sapevo se mio figlio avrebbe mai conosciuto suo padre.
Rimisi al suo posto il bracciale col piccolo lupo di legno, tra le proteste delle mie amiche che mi facevano notare che c'entrava col resto come i cavoli a merenda. Non me ne sarebbe potuto importare di meno.
Lo rimisi al polso; lì avrebbe dovuto restare per tutto il resto della mia vita.
* * *
Jacob mi aspettava sulla porta con un bimbo piccolo sulla braccia forti, come Cristoforo; non ricordo neanche esattamente come era vestito perché, quando mi prese per mano per percorrere quei pochi metri prima dell’altare, non vidi più niente se non lui, non sentii più niente se non la sua mano che stringeva la mia e mi sembrò perfino di pronunciare la promessa con la sua voce, che risuonava calda e nitida.Era forte e chiara e vibrava come le campane, il cui rintocco può coprire distanze inimmaginabili.
La voce di Jacob mi avvolse il cuore, riempì la chiesa, risalì la montagna e, ne sono sicura, arrivò fino al mare e ancora più lontano.
Sapevo con certezza che questa volta sarebbe stato per sempre.
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