Disclaimer

In questo blog pubblico le storie che ho scritto io ispirandomi ai libri della saga di Twilight di Stephenie Meyer. Quindi tutti i personaggi sono di zia Steph, che ringrazio per avermi fatta sognare come se avessi ancora quindici anni. Ogni tanto prendo anche dagli omonimi film della Summit Entertainment, secondo quello che mi serve ai fini della storia. Idem per certe battute dei protagonisti. Se le trovate uguali, è ovvio che le ho prese dai libri o dal film! Quindi tutti i diritti spettano ai legittimi proprietari del copyright. Le storie invece sono mie, ma potete riprodurle se citate la fonte, che deve essere questo blog oppure il sito EFP dove le pubblico con il nickname jakefan. Fatevi un giro su EFP, è davvero simpatico.

venerdì 18 novembre 2011

33. Sette soli

La copertina di questa settimana è di Aniasolary
Non riuscivo a smettere di rimuginarci su.
C’era sicuramente qualcosa che accomunava le tre visite che avevano impegnato Elias e me per tutta la mattina, e non si trattava di qualcosa di positivo.
Ero stata da Billy che non vedeva suo nipote da qualche giorno ed era in crisi d’astinenza; poi all’ambulatorio pediatrico dell’ospedale di Forks dove, per pura combinazione, era stata Sue Clearwater a vaccinare mio figlio; finito il giro delle commissioni, ora finalmente mi trovavo a casa di Emily. Io e la mia amica, sedute per terra, chiacchieravamo osservando Elias e Kay distesi vicini in una palestrina da bebè. Osservavano interessati gli aggeggi colorati e luccicanti che penzolavano sopra i loro nasini.
Era veramente strano e doloroso, per me, stare con Emily in quel modo.
I nostri occhi si evitavano, i nostri discorsi vagavano su argomenti a caso suggeriti non dal cuore ma da ciò che gli sguardi incontravano casualmente. Io ero in imbarazzo, Emily lo sapeva, io sapevo che lei sapeva e via così in un circolo vizioso che gelava l’atmosfera fra noi. Tutte e due sapevamo tutto e né lei né io eravamo in grado di spezzare quello che sembrava un sortilegio. Non ci era mai capitato di stare così male insieme.
-…questa per esempio gliel’ha comperata mia suocera e Ka…
-Emily.
-...e Kay ne va matta, ci sta delle ore a fissare sem…
-Em. Per favore!
Non riuscivo più a stare ferma; mi alzai e mi diressi alla finestra. Da qualche giorno incredibilmente non pioveva sulla penisola Olimpica, ma una cappa grigia incombeva sulla costa rendendo l’aria pesante e sovraccarica. Quasi come i miei nervi. Non sopportavo più la tensione.
Che avevo da perdere? Mi feci coraggio e fui io a parlare per prima.
-Forza, dimmi quello che mi devi dire.Certo, quello che stava accadendo alla Riserva non era colpa mia. Non era colpa di nessuno: nessuno di noi aveva scelto dove nascere, in che momento e sotto quale stella. Jacob non aveva scelto di nascere da Billy e Sarah né di ricevere il gene che faceva di lui un mutaforma; e quanto all’amore che c’era tra noi, anche quello agli occhi di tutti apparteneva alla sfera dell’ineluttabile, perciò non poteva essere additato come una colpa. Poco importava che non si trattasse di imprinting, Jacob l’aveva chiarito molto bene a Jared; era in ogni caso qualcosa di invincibile.
Che avremmo potuto fare? Ora sapevamo che il nostro amore non era un capriccio, e non solo perché c’era un bambino di mezzo. Credo non ci fosse ormai più nessuno, nella riserva, che non ci considerasse legati indissolubilmente, e se qualcuno la pensava diversamente non osava dirlo. Era un legame riconosciuto. Eravamo una famiglia.
E allora perché continuavo a sentirmi così dannatamente in colpa di trovarmi proprio lì?
Perché non ero riuscita a guardare Billy negli occhi mentre gli confermavo che ci trovavamo di nuovo in guerra, proprio nel momento in cui suo figlio aveva assunto la guida del branco?
Perché avevo pregato che la terra mi inghiottisse quando Sue, con gli occhi asciutti e la voce tagliente, stringendosi mio figlio al petto, mi aveva dichiarato che “ognuno di loro avrebbe fatto la sua parte fino in fondo, come sempre”?
Perché non riuscivo a condividere con Emily, come era sempre stato, l’angoscia che la torturava per la sorte del suo uomo tanto quanto torturava me?
Facile.
Non avevo colpa, no, ma la causa di tutto ero io.
Gli eventi che Alice poche sere prima aveva intravisto –nebulosamente, senza dettagli, senza indizi che ci permettessero di dar loro una precisa collocazione temporale- erano stati tutti messi in moto dalle mie scelte passate; non sapevo niente di debiti karmici, erano parole che potevano stare nel vocabolario di Renée molto più che nel mio e solo anni dopo avrei scoperto che sarebbero state le parole giuste per definire il macigno che mi sentivo pesare addosso. Per il prezzo che sentivo di dover pagare in ogni caso.
Non avevo colpa perché non c’era stata in me consapevolezza di ciò che sarebbe scaturito dalle mie scelte, ma ero stata il motore immobile da cui tutto era iniziato. E, peggio di tutto, in me stava ancora il potere di cambiare le cose. Potevo far finta di ignorarlo, come facevano tutti in fondo, ma risalendo la catena delle cause e degli effetti fino alla sua origine risultava evidente che ero stata io a saldare gli anelli l’uno all’altro; forse, spezzandone uno, avevo ancora il potere di deviare il corso degli eventi.
Non avevo colpe ma avevo possibilità: Billy, Sue, Emily, tutti quelli che avevano una persona amata che rischiava la vita perché i Volturi stavano arrivando lo sapevano, esattamente come lo sapevo io. Ecco perché non riuscivo a guardarli negli occhi né loro a guardare me: saremmo stati costretti a vedere la nostra reciproca vergogna, e non si trattava di un imbarazzo da poco, di quelli che tra amici vengono dissipati con una battuta o un sorriso. Si trattava di volermi bene ma contemporaneamente desiderare che me ne andassi lontano, trascinando con me la minaccia che ci sovrastava tutti.
Emily prese fiato, aprì la bocca e la richiuse, poi finalmente alzò la testa e mi guardò.
-Mi sento fregata. Non sono nemmeno libera di odiarti perché ti voglio bene, non ce la faccio proprio. Non ti do colpe ma penso che rischio di perdere Sam per causa tua. Voglio bene anche a Jacob, come ad un fratello, eppure vorrei che tu non fossi mai arrivata a Forks. Insomma…
Distolse lo sguardo.
-Mi dispiace così tanto, Bella. Mi sento così… vile. Schifosamente vile ed egoista.
Scossi vigorosamente la testa.
-Non dire cretinate. Non farmi sentire peggio di come già mi sento, per favore. E alla base di tutto, io credo che tu sia… terrorizzata per Kay. Non è così?
Gli occhi di Emily divennero grandi e lucidi.
Potevo fare una colpa alla mia amica di mettere sua figlia sopra ad ogni altra cosa? Era esattamente quello che avevo fatto io e che avrei continuato a fare. Mettere mio figlio sopra a tutto.
Non sapevo cosa dire.
Avrei dovuto sacrificarmi per tutti?
Non avevo risposte concrete per Emily per almeno due ragioni: perché una parte di me si ribellava all’orrenda ingiustizia di perdere Jake ed Elias proprio adesso, e perché pensavo che mio figlio era innocente quanto Kay e si meritava di vivere e di crescere con i suoi genitori. Mi aggrappai a questo per riuscire a tenere ancora la testa alta.
Quindi non so perché mi uscirono dalla bocca le parole che rivolsi ad Emily guardandola bene negli occhi, per essere certa che mi capisse e mi rispondesse in modo consapevole.
-Se io… se a me e Jake succedesse qualcosa, voglio dire. Te la sentiresti di pensare ad Elias?
-Non dirlo neanche per scherzo, non voglio sentirlo.
-Se fosse. Dico solo se fosse. Io vorrei che Elias restasse qui e che te ne occupassi tu. Perché Charlie, col lavoro che ha… Solo con un neonato… Promettimelo, Em.
-Smettila.
-Promettimelo, maledizione! Ho bisogno che tu…
Non riuscii a terminare; non ero affatto forte come volevo far credere. Emily mi strinse a sé e fra di noi fu tutto di nuovo come prima.
-Già… Che cavolo ci puoi fare, alla fine? Piantala o farai piangere anche me, viso pallido. Piuttosto dimmi una cosa: tu faresti la stessa cosa con Kay, se fosse necessario?
-Certo che sì.
-Allora… affare fatto.
Tirai su col naso. Mi sentivo patetica; patetica e senza scelta. Mi staccai da Emily senza riuscire a guardarla in faccia, ma continuai a tenerla per mano.
Ora il silenzio era totale, se non per il ticchettio dell’orologio e i delicati rumori che venivano dai bambini. Ma almeno non era più pesante e doloroso; era semplicemente triste e carico di attesa.
Restai di umore pensoso, quel giorno; continuavo a farmi domande pesanti senza arrivare da nessuna parte, incapace di trovare una soluzione. Non volli pensare che si trattava di rassegnazione: ero certa che se mai fosse esistito qualcosa di buono che potevo fare per tutti noi, presto o tardi –speravo molto presto- avrei capito cos’era.

* * *

C’era una grossa novità, alla riserva, che non contribuiva certamente a migliorare l’atmosfera. Era qualcosa che i lupi del Branco originario, quelli che avevano affrontato i neonati di Victoria, sopportavano abbastanza bene e il disagio, per loro, si traduceva semplicemente in un vago nervosismo che non gli permetteva mai di rilassarsi del tutto.
Per i più giovani, invece, il problema era riuscire ad imbrigliare istinti violenti come cavalli selvatici, impulsi naturali incontrastabili con il semplice uso della ragione. Colin, Brady, Thomas, non possedevano alcuna esperienza e reagivano alla singolare novità come dei gatti arrabbiati, più che dei lupi; rizzavano il pelo, scattavano alla minima provocazione e l’aria attorno a loro era carica di elettricità.
Vincendo le obiezioni degli anziani e di Sam stesso, che era a tutti gli effetti il suo braccio destro, Jacob aveva preso l’impopolare decisione di permettere ai Cullen di passare il confine.
Certo, erano sempre tenuti ad avvertire e ad approfittare della concessione solo per motivi legati alla sicurezza di tutti, ma dai tempi di Ephraim nessuno della famiglia di Edward si era più avvicinato a La Push; il territorio di caccia era stato spartito in modo ferreo e il confine non era mai stato violato, quasi si trattasse di un muro invece che di una linea immaginaria tracciata nella foresta.
Jacob detestava i vampiri; era il primo a dover dominare l’istinto violento di mordere ed uccidere quando si trovava in loro presenza. Si controllava a fatica, anche se ormai il suo sforzo era scarsamente visibile dall’esterno e solo un leggero tremito delle sue mani rivelava, a chi sapeva vedere, la fatica di mantenersi calmo. Ma alla fine la razionalità aveva prevalso sulla sua antipatia e sulla tradizione: la ragione diceva che la minaccia dei Volturi non doveva essere sottovalutata, che lupi e vampiri, per collaborare al meglio, avrebbero dovuto abituarsi alla reciproca presenza e non importava assolutamente niente che lo gradissero oppure no. Due specie naturalmente nemiche avrebbero dovuto coordinarsi per colpire assieme; i lupi anziani avrebbero dovuto imparare la differenza tra un neonato ed un vampiro maturo ed esperto, per di più dotato di poteri straordinari. Per i lupi più giovani e freschi di mutazione, invece –e le due cose spesso coincidevano- si sarebbe trattato di vedere per la prima volta un vampiro vero, imparare a distinguere gli amici dai nemici e soprattutto concentrare la forza e la rabbia contro il bersaglio giusto.
Insegnare tutto ciò, esattamente come era stato ai tempi di Victoria, sarebbe stato compito di Jasper; imparare in fretta era compito dei Quileute. Quanto in fretta, non era nemmeno da chiedere.
Quella era la ragione per cui ogni sera, al calare del sole, gruppetti di due, tre ragazzi lasciavano alla chetichella la manciata di case che si affacciava sulla spiaggia per raggiungere il buio della foresta. Si recavano nella foresta di Hoh, dove Jacob era stato ferito, ma altre volte restavano nella riserva, non molto lontani dall’abitato. Era la ragione per cui ogni sera, nelle piccole case in riva al mare, si accendevano luci destinate a spegnersi solo molto più tardi, a notte inoltrata.
Erano luci che illuminavano una lunga attesa.
Madri e padri, fratelli, compagne: per ogni luce che si allargava fioca oltre la finestra mi sembrava quasi di riuscire a percepire i battiti accelerati dall’ansia di cuori che si sarebbero placati solo ore ed ore dopo, al rientro silenzioso e qualche volta clandestino di quelli che erano spariti nella foresta.
E al di là della spavalderia e degli atteggiamenti guasconi, delle facce di bronzo e delle battute pesanti, anche tra i lupi dilagava la paura. All’orgoglio di essere i difensori dei propri cari perfino i più giovani ed incoscienti univano il timore di non riuscire a proteggerli o, peggio, di non riuscire a tornare a casa.
Era così per tutti, lo sapevo perché Jacob divideva spesso con me i pensieri del branco; la paura rinsaldava i legami d’amore, il terrore di perdersi mostrava gli uni agli altri con occhi più consapevoli della preziosità di ogni affetto. Gli abitanti di La Push erano tornati ad essere una tribù i cui giovani guerrieri sarebbero partiti per una battaglia, orgogliosi di farlo ma sicuri che non tutti avrebbero fatto ritorno.
Solo uno dei lupi, soffocato dall’amarezza, si teneva fuori dai legami d’acciaio che facevano dei Quileute, in questo momento, un unico corpo spaventato, sferzato dall’adrenalina e pronto a combattere; nemmeno il pericolo imminente era riuscito a cambiare il punto di vista altero ed amaro di Leah Clearwater.

* * *
-Cos’ hai detto? Che cazzo hai detto?!
La calda voce femminile era esplosa nell’aria immobile del pomeriggio; nonostante la distorsione causata dalla rabbia di cui era intrisa restava chiaramente riconoscibile, così come il rumore di vetri infranti che era risuonato subito dopo. Un finestra, probabilmente.
-Non. Chiamarmi. Mai più. Così! Mai più, ho detto!
Mi ci volle un attimo per capire cosa stava succedendo. Emily era seduta per terra contro la parete esterna, rannicchiata e con un fazzoletto in mano. Fuori da casa sua. A poca distanza da lei, sul prato, erano disseminati i resti della finestra della sua cucina e di un vaso di coccio, in mezzo a delle fresie rosa sparse malamente sull’erba.
La mia amica piangeva, ma quando aprii la bocca per chiederle il perché mi fece segno con la mano di tacere.
-E’ mezz’ora che vanno avanti così.
-Oh mio Dio. Leah e… e Sam?
-E Jacob. C’è anche lui, dentro.
-Ma cosa sta succedendo?
Emily non sarebbe riuscita a rispondermi nemmeno se lo avesse voluto. La vidi deglutire e contrarre il viso, sul quale una smorfia di dolore rendeva impietosamente evidenti le cicatrici. Cercava di trattenere il pianto, senza successo, perché le lacrime rendevano lucida la pelle delle sue guance.
-Ogni volta. Ogni maledetta volta è così. Lo so cosa pensate tutti di me e Sam e Leah, Bella, ma credimi se ti dico che la sto pagando cara. Lei ci sarà… sempre. Sempre. Lui non riesce…
-Ma che diavolo…?
Un altro oggetto volò dalla finestra ormai rotta, senza fare altri danni; un pentolino raggiunse i cocci e le fresie sul prato. La casa dove vivevano Sam ed Emily era appartenuta alla madre di Sam, che l’aveva poi ceduta al figlio in occasione del matrimonio; Leah ci si sentiva ancora come a casa sua, evidentemente, a giudicare da come gli oggetti prendevano facilmente il volo.
-Leah, adesso basta. Calmati e ragiona, per favore.
-Tu fatti i cazzi tuoi, Jacob
-Questi sono cazzi suoi, Lee-Lee.
-Ti ho appena detto di non chiamarmi mai più così, maledizione!
-Va bene. Leah. Non capisci che...
-Non capisco un paio di palle, Sam! Non sei più tu a comandare, adesso, quindi chiudi la maledetta ciabatta e vedi di non ficcare idee stronze in testa a Jacob!
-Leah, per favore…
-Tu non mi tratterai da minorata mentale come si ostinava a fare la testa di cazzo ipocrita del mio ex qui presente, giusto? Non me ne starò indietro a guardarvi e tu lo sai benissimo. Vero? Vero? Jake?
-Leah…
-Co…cosa? Cosa!? Ma tu sei… sei d’accordo con lui!
-Certo che sì. Ne abbiamo parlato, prima di dirtelo.
Mi parve quasi di vedere delle nuvole nere addensarsi in cielo in attesa di essere squarciate dal temporale. Ma in effetti l’urlo di Leah fu molto peggio di un tuono; era molto più arrabbiato.
Imbarazzante.
Sgradevole.
E doloroso.
-Tu. Sei. Uno schifoso bastardo traditore mille volte peggio di lui e io ti odio!
-E tu sei una rompicoglioni testa di cazzo cento volte più di me! E adesso taci e ascoltami, perdio!
Non avevo mai sentito Jacob urlare a quella maniera, e anche per Leah doveva essere una novità evidentemente, perché non ci fu nessuna replica. Emily smise di piangere e sbarrò gli occhi rimanendo in ascolto.
-Leah, per favore. E’ un favore personale che ti chiedo. Un favore, ok?
La voce del mio Jake era cambiata; dalle urla era passata ad un tono basso ed intenso. Era quasi dolce. Calda, pensai di nuovo; che fosse una cosa da lupi anche quella? Mi punse un’assurda gelosia; pensavo che usasse quel tono solo con me e con suo figlio. Ad ogni modo Leah ci cascò con tutte le scarpe, perché il silenzio continuò ancora per qualche attimo.
-Non raccontarmi cazzate, Jacob. Tu vuoi solo levarmi dai piedi, come tutti.
-Ti chiederei di occuparti delle due persone più importanti della mia vita, se fosse così?
-Non me la bevo, Jake. Perché proprio io?
-Perché sei la più veloce.
-Prova con qualcosa di più convincente.
-E’ la verità.
-Stronzate!
-Non sei la più veloce?
-Sono quella di cui potete fare a meno, secondo voi.
-Lo devo a tuo padre, Lee. Lui approverebbe la mia decisione.
-Sei il solito maschilista di merda, ecco qual è il problema! Sei come tutti gli altri!
-E va bene! Sei una femmina e non ti voglio in prima linea, hai capito? Porca puttana, Leah! Passerei il tempo a preoccuparmi per te e non posso proprio permettermelo!
-Non ho bisogno che nessuno si occupi di me, va bene?
-Certo, come l’ultima volta! Sono quasi morto, te lo ricordi?!
Fu in quel momento che la porta si spalancò e Leah irruppe nel giardino come un proiettile. Riuscii a malapena a notare che aveva il viso rigato di lacrime, perché in due falcate fu al limite del giardino e alla terza un lupo argentato aveva preso il suo posto e si era lanciato tra gli alberi; frammenti di abiti e scarpe sembrarono galleggiare per qualche istante nell’aria.
Passò ancora qualche minuto prima che Sam e Jacob, in silenzio, apparissero dietro la porta rimasta aperta. E altri lunghi minuti prima che Sam, tratto un respiro profondo, volgesse la testa e si accorgesse di Emily.
Jacob ed io li lasciammo soli.
Mentre intrecciavo le dita alle sue e ci incamminavamo giù per il sentiero mi sentii di nuovo immensamente fortunata.

* * *
C’era stato quel sogno.
Nessuno ne sapeva niente, né del sogno, né che l’avevo raccontato al nonno di Quil.
Nel sogno mi trovavo in cima ad una collina con… Harry Clearwater. Sì, proprio lui. Sopra di noi stava un cielo con sette soli: proprio sette palle di fuoco, del colore che ha di solito il sole al tramonto. Li guardavamo cadere uno ad uno e lasciavano una scia infuocata come enormi meteore diurne, fino a quando, caduto l’ultimo sole, restava solo il buio e non riuscivo più a vedere niente; sentivo la voce preoccupata di Harry senza riuscire a distinguere le parole.
Ero rimasta a casa cercando di dimenticare tutto, distraendomi con qualche faccenda domestica, senza riuscirci minimamente; avevo sempre davanti agli occhi, impressa sulla retina, la coda fiammante dei soli che cadevano a terra, lontano.
Poi mi ero ricordata di quella mattina sulla spiaggia e delle strane parole del vecchio Ateara; così avevo pensato che tra matti ci saremmo intesi bene, ed ero andata a trovarlo con Elias.
Nella penombra del piccolo soggiorno-la luce non gli serviva a niente, perché era quasi completamente cieco- di nuovo mi aveva riconosciuta. Si era accorto subito della presenza di mio figlio e aveva voluto che glielo mettessi in braccio.
-Isabella… sei gentile a perdere il tuo tempo con un povero vecchio. Il tuo piccolo lupo cresce bene, vedo; è forte e sano, no?
Mi fece trasalire sentirlo parlare in quel modo; nessuno al di fuori del branco aveva alluso così apertamente alla natura di Jacob o… o a quella di Elias? Cosa voleva dire? Era la stessa cosa che voleva dire Alice? E poi, di nuovo questo vedere. Come poteva vedere, se era cieco? Maledizione. Perché ogni volta mi doveva mettere in subbuglio con le sue farneticazioni?
Mentre cercavo inutilmente qualcosa di sensato da dire, era entrata Leah. Proprio lei, manco a farlo apposta. Mi aveva guardata con la stessa simpatia con cui si guarda un serpente a sonagli e aveva girato sui tacchi per uscire, tanto in fretta come era entrata. Ma il vecchio Quil l’aveva fermata.
-Gli spiriti sono molto attivi, oggi… Guarda che fortunata combinazione, Leah. Sei venuta anche tu a raccontarmi un sogno?
-Io non ho detto che devo parlare di un sogno! –avevo strillato.
-Io non voglio… e come cavolo fai a saperlo, nonno?- aveva strillato anche Leah.
-Bah, intuito. Racconta pure, cara.
-Bene, io vi lascio… Torno un’altra volta, OK?
-No, ti prego, Bella, resta. Lasciami ancora un attimo questo giovanotto. Racconta, Leah, racconta tutto –aveva sogghignato il vecchio – e non ti fare problemi con Isabella. Anzi, racconta a lei.
Eravamo rimaste tutte e due in piedi in silenzio, ferme come due statue di sale, pensando entrambe le stesse cose, probabilmente: che Quil Ateara II era un po’ picchiato, molto inquietante e che nessuna di noi due osava andarsene. Poi Leah si era schiarita la voce e aveva cominciato a parlare.
-L’ho sognato anche stanotte, è la terza volta in una settimana. Mio padre. Harry dice che devo badare a… a lei – aveva detto con disprezzo, indicandomi – Cazzo, sembra si sia messo d’accordo con Jacob e Sam!
Le rughe del vecchio Quil si erano distese in un sorriso innocente e divertito.
-Non sai quanto sia vero, nipote… Nient’altro? Non ha detto nient’altro il mio amico Harry?
-Ha detto… ha detto che non c’è più tempo.
Mi sentii gelare.
Quil Ateara si era voltato verso di me, imitato subito da Leah.
-Io… Oh, Dio. Anch’io ho sognato Harry – avevo balbettato.
-E? … Su, cara. E’ facile.
-Fa…facile un corno. Io non voglio questa cosa. Non voglio sapere…
-Smettila di lagnarti, stupida. Raccontami tutto. Voglio sapere tutto di mio padre.
-Non ha detto niente! Era solo lì con me, a guardare… a guardare…
-A guardare cosa? E parla, cazzo!
-…a guardare i sette soli che cadevano, uno per uno.
C’era stato un attimo di silenzio. Leah mi guardava con disprezzo, il nonno di Quil apertamente divertito e sollevato, come se si fosse aspettato esattamente quello che avevo appena detto.
-Davvero non hai capito niente, Swan?
La voce di Leah era carica di… nemmeno disprezzo, sopportazione o esasperazione, piuttosto. Quella cosa che si prova quando si deve necessariamente aver pazienza con un idiota, che nel caso specifico ero io. Poi la sua espressione era cambiata e con essa il tono della voce che era smorzato, come arrochito da qualcosa che poteva essere solo paura.
-Devi essere più scema di quanto pensavo. Mai giocato alle parole crociate? Mai fatto i rebus? Sette giorni. Abbiamo solo sette giorni per prepararci – disse Leah con lo stesso tono piatto, ora cupo.
– Dì a Jacob che farò quello che mi ha chiesto. Di certo non per la tua bella faccia, Swan.
Il vecchio questa volta non l’aveva fermata. Eravamo rimasti soli lui ed io, nel buio; Elias dopo poco aveva iniziato a piangere.
-Devi perdonarla, ragazza. Non hai nemmeno idea dell’amarezza che c’è nella sua vita. Ma cambierà, oh se cambierà. Non sa ancora che ti deve la vita.
-Mi… mi deve la vita? Leah? A me? Ma se io non ho mai…
-Sono stanco. Porta i miei saluti al nostro giovane capo, Bella.
Si era tirato addosso la coperta colorata che era la stessa –ora me ne accorgevo- che lo avvolgeva il giorno del nostro incontro sulla spiaggia. Dopo un attimo russava leggermente. Avevo accostato la porta senza far rumore e me ne ero tornata a casa, molto più inquieta di prima.

* * *
La notte era scesa a portare un po’ di sollievo, alla fine di quel giorno carico di messaggi incomprensibili.
Jacob chiuse gli occhi sotto al mio tocco mentre gli accarezzavo il viso tirato e stanco.
-Sei distrutto, vero? Che avete fatto stanotte?
-Poco movimento e tante chiacchiere inutili. Ma no, dai, non è vero… Quel Jasper mi piace e il dottore dice sempre cose sensate. Abbiamo pensato… Carlisle ha avuto un’idea sulla stronzetta bionda e il suo fratellino. Dice che è meglio se restano vivi.
Mi vennero i brividi al pensiero del visino d’angelo di Jane e dei suoi occhi da belva sanguinaria.
-Oh. Non sottovalutarli, Jake, ti prego. Promettimi che non lo farai. Per favore.
-Stai tranquilla, non sono in vena di pazzie. E’ strano, sai. Al tempo dei neonati avevo meno paura, anzi, non ne avevo proprio. Adesso…
Mi guardava negli occhi e mi aveva risposto a bassa voce, mentre con la punta delle dita allontanava dalla mia fronte sudata una ciocca di capelli.
-…adesso?
-Adesso ci siete voi e ho una paura fottuta. Ti ho delusa, Bells?
-Taci. Dammi un bacio.

Immagino di guardare i nostri corpi nudi dall’alto, come fossi uno spirito sopra di noi, e li vedo distesi fianco a fianco, rivolti l’uno verso l’altro; vedo i nostri occhi cercarsi e trovarsi, le mani allacciate. Sono come le mani di due bambini che per la prima volta toccano altre mani: è l’innocenza che viene dopo l’amore . Siamo vicini come le due metà di un cuore o di una conchiglia o come due ali; due metà che divise, in questo momento, mi sembrerebbero solo forme prive di vita.
Ti guardo, Jake e ancora non ci credo, non mi pare possibile che tanta bellezza mi appartenga. Se solo Alice potesse vedere… Sarà sufficiente il tempo che mi resta, mi chiedo, per amarti abbastanza? Per essere certa che ho fatto anche l’impossibile e che di più davvero non avrei potuto fare? Mi sentirò in pace, potrò mai dire a me stessa che ho dato davvero tutto quel che avevo e non mi è rimasto più niente? Perché io non voglio avere più niente; se dovrò andarmene vorrei essere certa di avere lasciato tutto qui, specialmente la parte migliore di me.
Non parlo più e tu mi sorridi, mia metà, mio opposto e mio uguale, come un viso nello specchio, come il riflesso di un cigno su acque immobili; nei tuoi occhi leggo qualcosa che non ha bisogno di parole per spiegarsi.
Quanto tempo ho prima che la paura che ci sta intorno prenda una forma precisa e ci separi?
“Per sempre” può fare paura, “per sempre” è solo un’illusione. Per sempre non esiste. Un giorno anche i vampiri moriranno, il sole si spegnerà e noi non saremo più nemmeno ricordi di leggende. Perché non ci sarà più nessuno a ricordare.
Perciò, qui. Qui ed ora. Non soltanto perché non so se potrò farlo domani o perché non so se sto sognando o se quello che ci è accaduto è vero. E’ che ho bisogno di un per sempre che non sia solo un’illusione e se non tu, chi altro? E se non ora, quando?
Se mi restasse una settimana da vivere, solo una settimana, Jake, io lo so cosa farei.
Niente di diverso da quello che sto facendo ora.
Continuerei ad alzarmi con te la mattina e ad occuparmi di nostro figlio; vorrei ridere alle tue battute e restare ogni minuto incredula per la mia buona sorte, sì, proprio io, quella che inciampa nei suoi piedi e colleziona cataclismi uno dopo l’altro. Voglio stare qui, nella nostra casa sospesa tra gli alberi e il mare, a vederti andare via e ad aspettare il tuo ritorno e ogni volta gustarlo come se fosse il primo, quando sei riapparso dopo che credevo di averti perso per sempre. Niente di diverso da quello che sto facendo ora. Non ho bisogno del giro del mondo o di cose rare e straordinarie, ho solo bisogno di vivere con te ogni minuto che mi resta.
Solo una cosa, credo, vorrei fare in più, perché mi serve quel per sempre, perché voglio che tu lo sappia e anche se sembra - e forse lo è- una cosa stupida, voglio dirti davanti a tutti che è per sempre; se avessi una settimana sarebbe il mio per sempre, se avessi un giorno o un’ora vorrei che fosse per sempre e se avessi solo i prossimi dieci minuti, ancora vorrei che fosse per sempre; indosserei solo dei fiori nei capelli e cercherei di tenere ferma la voce e le mani e poi te lo direi davanti a tutti, che ti amo ed è per sempre.
Ti amo.
Ed è per sempre.


Giocavo con la sua mano e ne accarezzavo il palmo ruvido e caldo. Disegnai un cerchio attorno alle sue dita, leggero come un carezza.
-Tu non porti anelli.
-No, mi danno fastidio e poi sono roba da femmine, no? Quil ne ha uno d’argento ma lo prendiamo tutti per il cu…
Gli posai un dito sulle labbra.
-Io detesto sposarmi, Jake.
-Beh, vorrei vedere. Sposarsi a diciotto anni è una vera cazzata, no… oh? Eh? Oh!
Beh, finalmente aveva capito. Magari non tanto velocemente, ecco, ma aveva capito. Il mio stupido bestione. Accidenti.
Avrei voluto sprofondare, no, sprofondare e poi anche ricoprirmi con qualche palata di terra, perché non mi aspettavo proprio una reazione del genere.
Va bene, era solo una proposta di matrimonio tanto folle quanto incomprensibile ma… insomma!
-Ti dispiace smettere di ridere, Jake?
-Scu… scusa, Bells, è che questa veramente… oddio, non ce la faccio. Oh, caspita!
-Mettimi giù, testone! Devo vestirmi!
Riuscii a malapena a infilarmi un vestito e a metterci sotto un paio di mutande, giusto un secondo prima che spalancasse la porta e mi trascinasse giù per gli scalini.
-Aspetta, testone! Che ne facciamo di tuo figlio?!
-Muoviti, dobbiamo dirlo a Charlie. Gli verrà un infarto ma morirà felice...

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