Rimasi a casa dei Black per poco più di tre settimane, giusto il tempo che ci volle per rimettermi in piedi e trovarmi una sistemazione alternativa.
Fin dalla mattina del mio primo risveglio in quella casa, quando avevo aperto gli occhi nel letto di Jacob, avevo capito che non avrei potuto né voluto rimanere lì.Ovviamente Billy -perdutamente innamorato di suo nipote, più che della mia presenza- mi aveva offerto di restare. Ed in effetti sembrava reggere l'assenza di Jake meglio di quel che ci si poteva aspettare, forse meglio di chiunque altro, per quanto potesse sembrare assurdo.
Mi appariva misteriosamente tranquillo sulla sua sorte, come se fosse certo che qualcosa di magico o sovrannaturale stesse vegliando su Jacob, o come se sapesse che, in caso di necessità, avrebbe saputo per istinto quello che stava accadendo. Mi disse che Jake aveva chiamato a casa, una volta, nel periodo di Natale. Una telefonata brevissima, nemmeno un minuto forse, in cui aveva detto solo le cose essenziali: che stava bene e che voleva bene a suo padre. Apparentemente, questo era bastato a Billy per conservare la serenità e l'incrollabile fiducia che aveva nella capacità di Jake di badare a se stesso.
In tutte quelle tre settimane, Billy non mi aveva mai rinfacciato una sola volta, non apertamente almeno, di essere la causa del dolore e della fuga di suo figlio.
Non ce n'era alcun bisogno, me lo ricordavo ogni volta che mi guardavo allo specchio, e il senso di colpa mi soffocava... Ma forse, se si fosse arrabbiato con me, se mi avesse in qualche modo colpevolizzata o punita, alla fine mi sarei paradossalmente sentita meglio.
In più, ora che avevo vissuto un pò con lui, mi rendevo conto che oltre agli aspetti emotivi esistevano dei pesanti risvolti pratici dell'assenza di Jacob. Billy se la cavava benissimo, era un tipo davvero in gamba e c'erano parecchie persone su cui poteva contare in caso di bisogno, ma la sua vita non era affatto semplice. Mi resi conto molto bene che qualunque piccola azione doveva essere organizzata nei dettagli, per una persona nelle sue condizioni.
Cucinare, per esempio. La cucina dei Black era ancora quella scelta da Sarah, la madre di Jake e delle gemelle. Una cucina assolutamente normale e assolutamente scomoda ed inaccessibile per una persona su una sedia a rotelle. Senza Jacob, Billy aveva dovuto imparare a tenere tutto a portata di mano, a cucinare solo sui due fuochi a cui poteva arrivare, solo cibi semplici da preparare, e via così. In generale, aveva dovuto imparare a prevedere ogni suo bisogno ed ogni singola mossa necessaria a soddisfarlo, dal momento in cui si alzava dal letto la mattina, fino alla sera quando vi sarebbe ritornato.
Senza complicazioni emotive, senza tutto quel sottofondo di dolore inespresso e di domande senza risposta, io e Billy saremmo stati una squadra perfetta. Io avrei potuto occuparmi di lui, e lui mi avrebbe dato una mano col piccolo. Avrei avuto un nonno presente e disponibile ventiquattr'ore su ventiquattro: il sogno proibito di tutte le neomamme.
Vigliacca, debole, egoista, non lo so. Mi sentivo in colpa e mi ripromettevo ogni minuto che, se fossi andata via, sarei passata spesso a trovarlo, che gli avrei portato spesso il bambino, che mi sarei occupata delle sue necessità. Ma lì non ci volevo restare.
Perché alla fine il problema principale non era nemmeno il senso di colpa.
In realtà, mi immaginavo Jake tornare e scoprire che mi ero intrufolata come una parassita nella sua vita e nella sua casa. Sapevo che, un tempo, non avrebbe chiesto di meglio. Ma dopo quello che gli avevo fatto, come potevo essere tanto presuntuosa da sentirmi in diritto di considerare casa sua come fosse mia?
E se, una volta tornato, fosse stato lui a chiedermi di andarmene? Magari per liberare spazio per la sua compagna, o peggio il suo imprinting?
Perciò ero passata all'azione quasi subito per andarmene, pronta a supplicare tutto il branco e i loro congiunti e ad accontentarmi di una stanzetta in affitto quasi ovunque, purché nella riserva e nel territorio protetto dai lupi.
Invece la fortuna mi sorrise di nuovo sotto forma di Emily, che mi propose di trasferirmi in una piccola casa -veramente piccola, devo dire- a nemmeno trecento metri dalla sua.
Si trattava di un prefabbricato in realtà, poco più largo di una roulotte, che però mi piacque subito per due ragioni: non mi sarebbe costato quasi niente, il che non era da sottovalutare visto che non avevo un lavoro né una rendita, e aveva due finestre dalle quali, in mezzo agli alberi, si intravvedeva il mare. Qualcosa che avevo sognato per tutta la vita.
Mi sembrò il regalo di qualche angelo, il segno che, tutto sommato, forse non mi stavo muovendo poi così male nella mia nuova vita.
La casetta apparteneva ad una cugina di Emily, che vi aveva abitato col marito fino alla nascita del secondo figlio. Si trattava di due stanze: una camera da letto piuttosto spaziosa, un bagno, una zona giorno con angolo cottura. Le tre porte si affacciavano su un piccolo ingresso quadrato, cui si accedeva dal patio dopo avere salito quattro scalini. Tutto su un solo piano, e il patio su tre lati, come la casa dei Black. Me ne innamorai subito.
I ragazzi nel giro di una settimana avevano imbiancato, lamato le assi del pavimento di legno, riverniciato gli infissi, controllato gli impianti e riparato i pochi, piccoli guasti presenti.
La terza settimana dalla nascita di mio figlio, mi ero messa il piccolo al collo, mi ero fatta coraggio e, accompagnata da Emily e Kim, avevo intaccato in modo sensibile i miei risparmi in un self-service di mobili.
Il branco mi salvò di nuovo evitandomi di mettermi a montare mobili prefabbricati e, per farla breve, potei trasferirmi nei tempi previsti.
Sembra strano dirlo, perché ero sola, spaventata, con un bimbo piccolo a cui dovevo badare da sola, ma la prima sera nella mia nuova casa fu una delle più belle della mia vita.
Il risultato di tutto quell'andirvieni di ragazzoni operosi era un'abitazione semplicissima ma chiara, luminosa, solare, dove ero riuscita a far entrare persino una piccola libreria di legno anticato e una poltroncina con poggiapiedi. L'avrei usata per allattare, pensavo, ma anche per leggere in pace quando mio figlio me lo avesse permesso.
Il fatto che fosse una casa davvero graziosa era secondario. Il punto era un altro.
Era mia. La mia prima casa. Immeritata, sicuramente, come tanti altri colpi di fortuna che avevo avuto in tutto il casino che avevo scatenato.
Ma era, per la prima volta, un posto che avevo scelto e desiderato e definito io stessa -con l'aiuto di tutti, certo- proprio come piaceva a me.Un luogo nel quale mi riconoscevo e mi sentivo sicura. Un posto dove, semplicemente, avrei posato i miei libri, gli oggetti del mio bambino, la mia tazza, le mille cianfrusaglie che dimenticavo in giro di solito. Era un luogo che, lo sapevo, avrei riempito di amore, anche se non sapevo quale tipo di amore. Un luogo del quale mi sarei occupata con gioia, e sapevo che ogni volta che avessi alzato gli occhi avrei visto il mare brillare in mezzo agli alberi.
Ero certissima che non avrei avuto bisogno di molto altro. Soprattutto, non di lusso e di lustrini e di oggetti firmati e di arredamento di design: non era da me, non mi apparteneva. Preferivo i colori del legno, il sapore di cose chiare della carta sotto il sole.
Con una serie di telefonate lamentose e pignole a Charlie, ero riuscita anche a fargli recuperare e a farmi portare un oggetto che ora pendeva sopra la culla di mio figlio. Un sottile bracciale d'argento, alla cui estremità stava appeso un piccolo lupo intagliato nel legno. Ora riuscivo a guardarlo senza sentirmi distrutta, ed ero felice di dove lo avevo collocato. Qualcosa al posto giusto, finalmente, nell'ordine precario della mia esistenza.
Quando, la prima sera, Emily, Billy e Sam mi lasciarono sola dopo avermi aiutata a sistemare le mie cose, piansi cogliendo in lontananza lo scintillio di una luce sull'acqua. Ma stavolta, per la prima volta dopo mesi, erano lacrime di sollievo e di qualcosa che poteva perfino sembrare un barlume di felicità.
Charlie ovviamente non la prese proprio benissimo, quando gli dissi che non sarei tornata a casa sua, ma non avevo alternative.
Non c'era un posto al mondo dove sarei stata più al sicuro che nella riserva, e non avevo intenzione di muovermi di lì fino alla fine dei secoli, se necessario.
Usai di nuovo la scusa di stare vicino a Billy, cambiare aria, stare con Emily che avrebbe avuto un bambino di lì a poco e avrebbe avuto bisogno di me tanto quanto io ne avevo di lei. Gli dissi che rimanendo con lui a Forks sarei stata tutto il giorno da sola, e magari anche qualche notte visto che faceva il poliziotto, mentre a La Push avrei avuto sempre Sam e Emily a portata di mano, e magari Billy si sarebbe fermato a dormire da me in caso di necessità. E non dimenticai di menzionare Sue, e fu un colpo basso cui Charlie non riuscì a reagire vista l'enorme stima che nutriva nei confronti della vedova di Harry Clearwater.
I ragazzi del branco passavano a trovarmi quasi ogni volta che potevano; il cucciolo di lupo era una vera attrazione per alcuni di loro. Soprattutto per Embry e Quil, che se ne consideravano zii a tutti gli effetti.
Visto che i lupi più giovani andavano ancora a scuola, praticamente ogni pomeriggio qualcuno veniva a fare merenda da me, e spesso si offrivano per aiuto e commissioni, evitandomi di uscire apposta e di complicarmi la vita.
Per una decina di giorni fui quasi euforica e mi godei tutti gli aspetti positivi della mia nuova sistemazione.
Appena mi ci fui un pò abituata e le novità si furono trasformate in routine, l'assenza di Jacob ricominciò ad emergere da ogni angolo della mia nuova casa e della mia nuova vita come un fantasma strisciante dalla polvere. Anche nella luce chiara dei pomeriggi, talvolta riusciva a spaccarmi il cuore.
Il mio mondo di adolescente aveva ormai finito di sbriciolarsi lentamente in pezzi microscopici.
Era incredibile pensare a quanto la mia vita fosse cambiata nell'ultimo anno, in tutti i suoi più banali aspetti. Perfino andare in bagno era diventata una cosa complicata...Non potevo semplicemente prendere ed andarci, perché c'era qualcuno che dipendeva totalmente da me, e poteva aver bisogno di me anche in quel preciso momento. Se non ci fosse stato da piangere, ci sarebbe stato da ridere, e io per il momento ancora ridevo, anche se cominciavo a scoprirmi un pò allucinata e poco reattiva a causa della mancanza di sonno.Mio figlio era il più normale e regolare e sano dei neonati. Il che significava, in pratica, che ogni due-quattro ore al massimo si svegliava per mangiare e magari protestava per essere cambiato o coccolato.
Quando non si svegliava lui, mi svegliavo io terrorizzata per controllare che respirasse.
Dormire era diventato, paradossalmente, il grande Incubo della mia vita. Per ora reggevo ancora bene, ma le borse sotto i miei occhi cominciavano ad essere delle valigie. E i miei neuroni intorpiditi dal sonno perdevano colpi, visibilmente.
Solo un anno prima, all'incirca nello stesso periodo, andavo a scuola, pranzavo in mensa assieme ad Angela, Ben, Mike e gli altri. Vivevo con Charlie e le mie preoccupazioni pratiche comprendevano solo cucinare per lui e organizzare i miei pomeriggi con Jake.
Un anno dopo, eccomi tornata a La Push... dopo essere passata a tempo di record per gli stadi di fidanzata, moglie, ex moglie e madre single. Complimenti, Bella, niente male.
Avevo avuto anch'io la mia crescita rapida, come i licantropi, e ogni tanto ne sorridevo un pò amaramente, un pò divertita.
Ridevo pensando che io, invece che ottenere in cambio dalla mia "trasformazione" qualche superpotere utile e affascinante, ne avevo ricavato una serie infinita di responsabilità, per non dire proprio rogne, rotture di scatole e compiti sgraditi. Non cercavo di sottrarmici né di delegare ad altri; facevo quello che dovevo fare, tutto, di buon grado. Tutto quello che serviva pensando in primo luogo al benessere del mio bambino.
C'era una sola cosa che proprio non riuscivo a farmi andare giù e che rimandavo in continuazione.
Il mio piccino restava senza nome, perché io mi rifiutavo di dargliene uno, dopo che Sam ed io avevamo lasciato l'ospedale di Forks nottetempo, senza che io firmassi alcun documento né tantomeno lo facesse Edward.
Mi ero rifiutata di firmare alcunché anche dopo.Testona come un mulo, sapevo diventare ottusa come un'ameba: mi chiudevo automaticamente le orecchie alle urla di Charlie che, nella sua posizione in questo caso privilegiata di capo della Polizia, combatteva periodiche battaglie con l'impiegata dell'anagrafe, poi addirittura con un'assistente sociale, per difendere quell'idiota di sua figlia che non aveva ancora messo una firma ed un nome su uno stupido pezzo di carta.
Il punto era che lui, il mio bambino, non era solo mio. Era nostro. Mio e di Jacob.
Un pezzo di carta con scritto che il piccolo era nostro: poteva essere l'ultima cosa che avrei avuto da Jacob Black, per quel che ne sapevo. E la volevo fortemente, questa cosa: per me stessa, per il bambino, e segretamente anche per Jake, che forse un giorno me ne sarebbe stato grato. Ne ero quasi sicura, indipentemente dai sentimenti che poteva nutrire per me.
Mi rifiutavo risolutamente di mettere nero su bianco quella che mi pareva un'enorme e vergognosa bugia: che il bimbo fosse figlio di Isabella Swan e di n.n..
Un nome per mio figlio in testa ce l'avevo, a dire la verità, ma me lo tenevo dentro. Tiravo avanti senza firmare niente e senza rivelare niente a nessuno, facendomi insultare da Charlie e sgridare da Billy, Emily e ogni essere umano che veniva per puro caso a conoscenza della faccenda. Tenevo duro, e mi fece piacere scoprire quanto potevo resistere a dispetto di tutto e di tutti per qualcosa che fosse veramente importante per me. Avrei mollato solo se insistere con la mia caparbietà avesse comportato il rischio che mi fosse sottratto mio figlio.
Un pomeriggio, sedevo al tavolo della mia piccola cucina col bimbo attaccato ad un seno, tentando di scrivere con la mano libera una lista della spesa che avesse qualche tipo di senso.
Latte, ruttino, formaggino sulla maglietta che mi ero appena cambiata. Non me ne importava niente. Accadeva regolarmente, e io posavo la guancia sulla testolina morbida e capelluta di mio figlio, sapendo che quel piccolo essere avrebbe potuto farmi veramente qualsiasi cosa senza intaccare lo stato di beatitudine amorosa in cui cadevo ogni volta che me lo tenevo addosso.
L'avevo posato in una cesta che mi ero fatta sistemare anche in cucina, per poterlo avere sempre con me, e mi ero preparata ad affrontare il compito successivo: capire, su una pila di dépliant del servizio sanitario quando, come e perché avrei dovuto vaccinare mio figlio contro una serie di malattie dai nomi variamente terrificanti.
Ero appena arrivata a MPR -Morbillo, Parotite, Rosolia- quando le lettere cominciarono a ballarmi sotto gli occhi. L'unica cosa che mi ricordo ora, di quell'attimo, è un enorme sbadiglio, e il desiderio irrefrenabile di lasciar scivolare la testa sulle braccia e infine sul tavolo.
Quando mi ripresi non ero più in cucina, ma in camera da letto.
Sdraiata sul letto.
Qualcuno mi aveva coperta, e aveva anche rimboccato il tessuto morbido attorno al mio corpo; la sensazione di calore era dolce e rilassante.
La beatidudine durò molto meno di un istante; il mio cuore passò da zero a cento in un secondo.
Mio figlio.
Scattai dal letto con una velocità ed un'agilità che avrei creduto essere possibili solo ad un vampiro. Ma ero un animale che cercava il proprio cucciolo, tutti i sensi proiettati verso quell'unico scopo sotto una scarica di adrenalina pura.
Non persi nemmeno tempo ad urlare o a stupirmi, volai semplicemente in cucina con tutta la velocità che il mio corpo fisico mi consentiva, mentre tutto il resto di me era già oltre la soglia, in bilico su un precipizio di terrore.
Ma non fu il terrore a cogliermi. Piuttosto, un senso di sorpresa e di stupore come avessi varcato la soglia di un mondo parallelo.
Spazi, luce e colori non erano come sempre. Un imprevisto, qualcosa di diverso e apparentemente assurdo, cambiava i contorni di una visione diventata quieta e familiare.
Qualcosa, qualcuno che non avrebbe dovuto esserci era lì.
C'era. Sotto ai miei occhi.
Le lunghe gambe in un paio di jeans chiari, un pò stracciati.
Poi, più su, il nero di una maglietta, e finalmente il mio bambino, che dormiva tranquillo nell'incavo tra il collo e la spalla ampia e forte, sorretto da una mano bruna.
La testolina seminascosta da una ciocca di capelli neri.
Potevo vivere, adesso, e guardare, e vedere. E vidi.
Il bellissimo viso addormentato, così meravigliosamente conosciuto e sconosciuto, e straordinariamente simile a quello più piccino che gli stava accanto.
Un viso più adulto rispetto a quello che ricordavo, ma reso infinitamente dolce dall'abbandono del sonno e da un'espressione quasi serena, sebbene profondamente stanca.
Ricordai di averlo già visto così dolcemente dormire.
Era un tempo così lontano e finito. Così perduto.
Lui nel suo letto, esausto dopo una notte nella foresta... non lo avevo svegliato.
Non volli svegliarli.
Il suo nome restò fermo sulle mie labbra inutili, incapaci. Nel mio cuore bloccato. Terrorizzato.
Respira, Bella. Respira.
Di nuovo, una sorta di imprinting, stavolta della vista e dei ricordi, qualcosa da scrivere in un libro sacro ed eterno, dentro di me per sempre. Mi accasciai a terra contro lo stipite cercando di trattenere i singhiozzi, di non fare rumore. Ovviamente, con scarsissimo successo.Respira, Bella. Respira.
Lui aprì gli occhi quasi subito, e non si mosse, per non svegliare il bambino.
I suoi occhi.
-Ciao, Bells.
Andai a pezzi.
Disclaimer
In questo blog pubblico le storie che ho scritto io ispirandomi ai libri della saga di Twilight di Stephenie Meyer. Quindi tutti i personaggi sono di zia Steph, che ringrazio per avermi fatta sognare come se avessi ancora quindici anni. Ogni tanto prendo anche dagli omonimi film della Summit Entertainment, secondo quello che mi serve ai fini della storia. Idem per certe battute dei protagonisti. Se le trovate uguali, è ovvio che le ho prese dai libri o dal film! Quindi tutti i diritti spettano ai legittimi proprietari del copyright. Le storie invece sono mie, ma potete riprodurle se citate la fonte, che deve essere questo blog oppure il sito EFP dove le pubblico con il nickname jakefan. Fatevi un giro su EFP, è davvero simpatico.
martedì 8 marzo 2011
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