Disclaimer

In questo blog pubblico le storie che ho scritto io ispirandomi ai libri della saga di Twilight di Stephenie Meyer. Quindi tutti i personaggi sono di zia Steph, che ringrazio per avermi fatta sognare come se avessi ancora quindici anni. Ogni tanto prendo anche dagli omonimi film della Summit Entertainment, secondo quello che mi serve ai fini della storia. Idem per certe battute dei protagonisti. Se le trovate uguali, è ovvio che le ho prese dai libri o dal film! Quindi tutti i diritti spettano ai legittimi proprietari del copyright. Le storie invece sono mie, ma potete riprodurle se citate la fonte, che deve essere questo blog oppure il sito EFP dove le pubblico con il nickname jakefan. Fatevi un giro su EFP, è davvero simpatico.

martedì 7 giugno 2011

My Dawn di Chiaki89, autore su EFP

Ho l'onore di ospitare sul mio blog un altro piccolo capolavoro creato per il contest "Quando divenni Lupo".
Il pezzo ha ingaggiato una dura battaglia con la storia prima classificata; bellissime entrambe, profondamente diverse. Tanto amara e sconvolgente "Misprinting", tanto delicata e confortante "My Dawn".
Il lupo di questa storia è tutto diverso da David. E' un timidone, uno che non vuole apparire, uno che non sa cosa farsene del suo enorme corpo da palestrato che lo espone inevitabilmente all'attenzione. E' una persona dall'animo delicato e riservato.
Ma è un Lupo.
Ed è un lupo che alla fine scopre ed accetta la forza e la potenza che ci sono dentro di lui. Lui, così timido, si adatta alla sua vera natura molto più di quanto non sappia fare, alla fine, quell'adorabile sbruffone di David. Thomas non parla molto ma il suo silenzio è potente, è solo la quiete che viene prima del grido del lupo.
Ho adorato questa storia. La scrittrice è bravissima con l'introspezione, scrive in modo molto vicino alla perfezione dal punto di vista grammaticale e ortografico, ma a parte questo il suo stile rispecchia il suo Lupo, è delicato e profondo.
Ho amato moltissimo anche il modo in cui ha intrecciato le citazioni dell'Occhio del Lupo di Pennac con la sua narrazione; con attenzione e maestria, senza mai apparire scontata.
Andate a leggere anche le altre storie di Chiaki89 su EFP, ne sarete contenti.

Non avevo mai davvero pensato a cosa significasse “per sempre”.
Era una di quelle espressioni che preferivo sorvolare e scacciare via, come una ciocca fastidiosa finita sugli occhi per colpa del vento.
Eppure nel mio nome uno spiraglio di eternità c’era: Thomas, “uguale a se stesso”. Perché qualcosa che resta identico a quello che è, in fondo, ti instilla un vago senso di infinito, un sempre sussurrato ma sfuggente.
O almeno così era per me.
Sono sempre vissuto nel mio mondo ristretto, fatto di amati silenzi e sognanti riflessioni. Una stanza in penombra, tiepida, intessuta di mezze misure nelle quali il mio spirito si identificava.
Ho sempre preferito confondermi nella massa. In realtà, più che mimetizzarmi nel colore uniforme della società che mi circondava, preferivo privarmi di tale colore. Trasparente, come l’acqua.
Ma tutto questo era prima della mia inaspettata, personalissima alba.


Cielo stellato
“Solo Lupo Azzurro rimane silenzioso. Non è un gran chiacchierone.
Piuttosto serio, vagamente triste, anche.
I fratelli lo trovano noioso.”
L’occhio del lupo, Daniel Pennac

“Tommy! Non dimenticarti di falciare l’erba, dopo la scuola!”. La voce di mia madre, Beth, mi raggiunse proprio mentre stavo uscendo di casa. Sfoggiai uno sguardo supplicante.
“Ma mamma, mi ci vorrà l’intero pomeriggio!”. Lei si erse fieramente, gonfiando il petto e sporgendolo in fuori. Già immaginavo cosa avrebbe detto…
“Signorino, Jefferson ci ha messo ben più di un pomeriggio per stendere la Dichiarazione d’Indipendenza!”.
Mugugnai sconsolato. Tutte, tutte le volte che mi lamentavo di qualche incombenza, mia madre tirava in ballo Jefferson, il Presidente degli Stati Uniti dal quale avevo preso il nome.
“Va bene”, risposi alla fine, arrendevole come al solito. Ero troppo assonnato per intraprendere schermaglie di prima mattina. Lei sorrise dolcemente e mi schioccò un bacio sulla guancia. Finsi di prendermela e borbottai qualche lamentela poco convinta. “Buona giornata, tesoro”, mi disse.
Mi sistemai meglio la cartella sulla spalla, aprendo il volto in un sorriso sincero. “Grazie, mamma”.
 ***
Non è che non mi piacesse andare a scuola. Insomma, non ero certo un secchione tutto libri e studio, ma imparare non era così male. Ampliare la mente, allargare il mio mondo, superare i limiti che a volte le mie conoscenze imponevano. Era bello, corroborante. Mi faceva sentire più forte, in qualche modo.
Quello che invece non amavo della scuola era sicuramente la massa. Non avevo la presunzione di ritenermi superiore agli altri, al contrario: ero consapevole di essere pressoché insignificante, noioso e decisamente difficile da approcciare. Una persona più spigliata di me probabilmente sarebbe stata in grado di porre rimedio a tali crolli di autostima –più che crolli, si poteva parlare di totale assenza- ma ero anche irrimediabilmente timido. Una caratteristica relativamente rara nei ragazzi: come diceva mio padre Sewati, “mio figlio è più strano del sole a Forks durante l’inverno”. Sicuramente non aiutava, ma almeno potevo riderci sopra.  
Strinsi più forte il manico della cartella, mentre mi immergevo nella fiumana di ragazzi diretti alle lezioni. Maschere bianche prive di lineamenti, corpi resi visibili solo dalla consapevolezza dello spazio che occupavano. Se io faticavo a farmi vedere, altrettante difficoltà avevo nel vedere gli altri. Nel cercare di mimetizzarmi perdevo di vista quello che mi circondava: tendevo ad uniformarlo, senza prestare attenzione alle sfumature. Un atteggiamento che mia madre aveva bollato come immaturo, non appena ne era venuta –disgraziatamente- a conoscenza. Rifiutavo testardamente di fare davvero parte del mondo; ma ero così, e basta.
In realtà, ogni giorno, una violenta pennellata di un giallo acceso si faceva strada a forza nei miei occhi.
Chitsa.
Il suo nome significava “bella”, e lo era davvero.
Non era bellissima –aveva gli occhi un po’ troppo grandi, soprattutto se messi a confronto con il naso piccolissimo, e il mento troppo appuntito- ma la sua quieta vivacità era in grado di penetrare qualsiasi schermo. Quando arrivava lei, il mondo prendeva improvvisamente colore.
Ma lei non mi vedeva neanche: eravamo in classi diverse, ormai. Solo alle elementari ci eravamo ritrovati a far lezione insieme e ovviamente eravamo troppo piccoli perché lei si ricordasse di me. La osservai passare come ogni mattina mentre parlava con le sue amiche, i capelli leggermente crespi per via dell’umidità e le guance rosse, stringendosi al petto il quaderno. Un arcobaleno dopo una giornata di pioggia.
Avrei mai trovato il coraggio di rivolgerle la parola?
Sospirando sconfortato, mi avviai verso la mia classe.
  ***
“Thomas Wildfire”.
“Presente”. Poco più di un sussurro era il mio, ma nel silenzio grigio dell’aula la mia voce risuonò perfettamente chiara.
Ecco, una delle cose che ritenevo più ridicole di me stesso era sicuramente il cognome. Ci voleva un bel senso dell’umorismo per associare il mio carattere riservato e riflessivo ad una parola che significava letteralmente “fuoco selvaggio”.
Giocherellai distrattamente con la matita, mentre la lezione iniziava. La mia mente, nel frattempo, volava.
Non mi sentivo infelice, non ero depresso. Ero solo…strano. La mia vita era una notte vellutata arricchita di stelle dalla luce confortante, un luogo sereno e privo di pericoli. Monotono, avrebbero detto alcuni. Rassicurante, avrei risposto io. Ero semplicemente un ragazzo simile a tanti altri: non spiccavo per qualità particolari –esclusa, forse, la riservatezza- e non mi interessava farmi notare. Sapevo che il mio atteggiamento nei confronti della vita non era il migliore, eppure vivevo sereno nel mio nido fatto di calore familiare e routine ormai affermate.
Perché avrei dovuto cambiare qualcosa?

Bagliore

“Troppo serio. […]
Troppo inquieto.
Troppo lupo…”
L’occhio del lupo, Daniel Pennac

Mi ci era davvero voluto tutto il pomeriggio per falciare l’erba del prato. L’avevamo lasciata crescere alta al punto che il muretto che circondava casa nostra era pressoché invisibile. Finite le incombenze –e controllato che mia sorella Marie non fosse in vena di disastri- mi diressi verso la foresta.
Mi piaceva molto il contatto con la natura, il profumo pungente e dolciastro del terreno umido, il dolce stormire delle foglie nella brezza. Mi diressi verso il mio punto preferito, ossia una piccola radura erbosa ombreggiata da alberi antichi e maestosi: uno di essi era crollato da parecchi anni, e mi ci sedetti sopra cautamente, come facevo sempre. Afferrai qualche sassolino da terra e mi divertii a colpire i tronchi a diverse distanze, cullando la mente in un senso di quiete e pigra attenzione. La mia unica dote, a quanto pareva, era la mira. Papà ne era molto orgoglioso, quasi quanto del suo ostentato sangue Quileute, e non faceva che vantarsene. Avrei preferito che non lo facesse.
Delle voci lontane mi riscossero. Lasciai andare la pietra che avevo in mano: cadde con un tonfo sordo. Mi guardai intorno, desiderando scoprire chi aveva appena violato i confini del mio rifugio segreto.
Delle figure emersero dall’ombra, sfocate ed oscure come frammenti di sogno. Trattenni il fiato bruscamente appena li riconobbi. Era quella banda.
Un gruppo di ragazzi della riserva, misteriosi ed assurdamente alti e muscolosi, che ormai erano famosi da alcuni mesi. Non erano visti di buon occhio e si sospettava che fossero coinvolti in affari loschi, soprattutto da quando alla banda si erano uniti dei ragazzini poco più grandi di me.
Mi augurai che non mi notassero, troppo presi dalle loro chiacchiere. Mi irrigidii, teso e leggermente spaventato, attendendo che passassero tutti. Stavo per lasciar libero un sospiro di sollievo quando uno di loro si voltò. Nonostante la scarsissima luminosità riconobbi Sam Uley, ritenuto il capo del gruppo. Piantò i suoi occhi nei miei solo per un istante, ma fu sufficiente.
Sentii come dei fili sottili ed invisibili ancorarsi al mio cuore, e dare un lieve strattone nella sua direzione. Sussultai. Non era una sensazione propriamente spiacevole. Inaspettata, inspiegabile; un’elettricità sotto pelle che mi aveva colmato per un attimo, senza lasciare traccia apparente, al punto che dubitai di averla provata davvero.
Sam distolse lo sguardo e si avviò dietro ai suoi compagni.
Io non riuscivo a muovermi. Passarono diversi secondi, durante i quali loro erano completamente spariti ed io ero rimasto fermo con gli occhi fissi nel punto dove si trovavano poco prima.
Poi uno strattone più forte mi scosse. Non erano più fili sottili. Sembravano d’acciaio.
E allora corsi verso casa. Più veloce di quanto non avessi mai fatto.


Aurora

“Il sole scelse quel momento per forare le nubi,
un raggio cadde su Paillette e tutti stornarono lo sguardo:
era davvero abbagliante!
Una lupa d’oro, con un nasetto nero.”
L’occhio del lupo, Daniel Pennac

Il mattino dopo mi svegliai con un cerchio alla testa tremendo. Mi sembrava di essere leggermente caldo, ma decisi di soprassedere. Avevo un compito in classe piuttosto importante e non mi pareva il caso di stare a casa per una blanda febbriciattola. Avrei potuto approfittarne per saltarlo, in effetti. Ma ormai avevo studiato, tanto valeva che mi togliessi il pensiero. Mi vestii a strati, per ogni evenienza.
Un turbine dai capelli ricci piombò in camera mia all’improvviso.
“Tommy! Tommy! La mamma ha detto che stasera posso andare alla festa a casa di Kate se tu mi accompagni! Ti prego ti prego ti prego…”. Sospirai, chiedendomi cosa avevo fatto di male per ritrovarmi una sorellina di dieci anni iperattiva ed esuberante. Tutto il contrario di me.
“Marie, ti porto solo se fai la brava. Fai tutti i compiti e aiuta la mamma. Altrimenti niente!”, stabilii, cercando di fare il fratello responsabile. Lei si esibì in un broncio totalmente inefficace. Le scompigliai i capelli, sorridendo, ed uscii dalla stanza.
***
Quando arrivai a scuola per qualche istante mi chiesi cosa stesse succedendo di così sconvolgente. Era come se avessero alzato il volume delle voci rispetto al solito. Mi guardai intorno perplesso dall’alto –insomma, dal basso- del mio metro e settantadue, ma non vidi nulla di strano. Scrollai le spalle e mi diressi in classe.
Per un’ora buona mi domandai per quale motivo il professore stesse urlando la lezione, ma quando il rimbombo di una matita che cadeva riecheggiò nelle mie orecchie come rintocchi di campana dovetti concludere che era il mio udito ad essere più sensibile del solito. Senza contare che, pur essendo la giornata piuttosto fredda, continuavo a sentire un gran caldo. Riuscii ad impedirmi di togliere il maglione per tutta la durata delle lezioni ma, invece di abituarmi, ero sempre più accaldato.
All’uscita da scuola, immerso in quella calca di persone compatte e spintonanti, non ce la feci più. Con un gesto disperato mi levai il primo strato di vestiti, restando in maglietta. Immediatamente parecchi sguardi conversero su di me e desiderai sprofondare. Con la coda dell’occhio notai che anche Chitsa mi stava guardando. Deglutii a vuoto e mi avviai il più velocemente possibile verso casa.
***
“Tommy, ho fatto la brava! Mi porti?”. Marie mi saltellò intorno sovraeccitata, aumentando il mio mal di testa. Biascicai qualcosa di incomprensibile e mi chiusi in camera. Gli strilli indignati di mia sorella mi trapanavano le orecchie; cercai di ignorarli.
Iniziai a camminare avanti e indietro, respirando profondamente. La febbre stava aumentando, senza alcun dubbio. Sentii mia madre chiedere qualcosa a Marie ed un lieve bussare interruppe il mio moto. “Tommy, tesoro, posso entrare?”.
Per un lunghissimo attimo fui pervaso dall’intenzione di dirle no. Poi mi resi conto che dovevo darmi una calmata e mi buttai sul letto. “Sì, mamma, entra pure”, risposi fiacco.
La sua espressione preoccupata mi fece subito sentire in colpa per i pensieri ribelli di poco prima. Dovette cogliere qualcosa, perché mi si avvicinò e posò una mano sulla mia fronte, ritraendola subito dopo.
“Scotti!”, disse stupita ed agitata. “Stenditi subito e stai coperto, io vado a chiamare il medico!”. Mi alzai rapidamente in piedi, protestando. “Mamma, non mi sento male!”. Fu in quel momento che mi accorsi che qualcos’altro non andava. Mia madre era alta esattamente quanto me, com’era possibile che io la stessi guardando dall’alto? Lei alzò lo sguardo, facendosi probabilmente la stessa domanda. “Magari è solo febbre da crescita”, azzardò. Poi uscì dalla stanza. Marie era ancora sulla soglia e mi guardava indispettita. “L’hai fatto apposta!”, gridò e, senza darmi l’opportunità di ribattere, sfrecciò via. Con uno sbuffo mi sdraiai sul letto, tentando di dare un senso a quella giornata assurda.
***

Verso sera Marie tornò. “Posso?”, mi chiese guardando fisso le proprie mani. “Certo”, le risposi incoraggiante. Mamma mi aveva inchiodato al letto dal primo pomeriggio, quindi non avevo potuto accompagnarla alla festa. Ne ero molto dispiaciuto, perché sapevo quanto lei ci tenesse.
Si avvicinò titubante e si sedette sul bordo del materasso, senza guardarmi in faccia.
“Scusa, Tommy”, sussurrò timidamente. Si morse un labbro. “Lo so che non hai fatto apposta. Scusa”. Colsi il pianto nella sua voce ed un caldo fiotto d’affetto mi attraversò tutto il corpo. Adoravo la mia sorellina. Travolgente ed avventata, eppure estremamente sensibile ai litigi.
“Sono io che devo chiederti scusa, Marie. Te l’avevo promesso”. Le accarezzai la testa. “Mi spiace davvero”.
Si lanciò immediatamente tra le mie braccia, stringendomi forte. Il nostro modo di fare pace. “Ti voglio bene, Tommy. Devi guarire in fretta”. Sorrisi, passandole un braccio intorno alle spalle.
“Anch’io ti voglio bene, Marie. Adesso vai, non vorrei attaccarti qualcosa”. Con un sorriso tenero e sollevato sfrecciò via, lasciandomi solo con i miei pensieri.
***

Mi svegliai a metà mattina, scosso da una sensazione che serpeggiava per tutto il corpo. Era come se ogni singola, microscopica cellula stesse sfrigolando. Non era doloroso, solo vagamente spiacevole. Mi sentivo una ciambella immersa nell’olio caldo. Ed evidentemente c’era qualcosa che non andava, se la mia mente era in grado di elaborare una similitudine così assurda.
Gemetti infastidito, quando percepii le ossa tendersi: non c’era altro modo per descrivere la cosa. Assomigliava alla tortura medioevale in cui il prigioniero veniva legato per gli arti e…tirato, letteralmente. Mi agitai nel letto, digrignando i denti.
Tutta la giornata passò così, in un vortice di sensazioni confuse, dolori vibranti, lenzuola strappate dalla mia stretta troppo veemente, sudore copioso che scorreva sulla mia pelle accaldata, lasciando scie umide ed appiccicose che mi facevano impazzire. I miei genitori erano fuori per lavoro e Marie era a scuola; mi avevano raccomandato di chiamarli, in caso mi fossi sentito male, ma non avevo la forza di staccarmi da quel letto. Era uno sforzo inconcepibile.
Verso sera la situazione migliorò. La mia temperatura era comunque altissima, eppure i dolori erano spariti completamente. Anzi, non ricordavo di essermi mai sentito così bene.
Mi alzai stiracchiandomi pigramente: avevo spaventosamente fame e lo stomaco brontolava in maniera imbarazzante.
Entrai in cucina. Mia madre era affaccendata ai fornelli e la stanza era di conseguenza molto più calda del normale. Mi avvicinai al frigorifero, in parte alla ricerca di refrigerio, ma soprattutto a caccia di cibo.
“Tommy, cosa stai facendo? Tra poco ceniamo, cerca di trattenerti! Inoltre il medico ha raccomandato di farti mangiare qualcosa di leggero. Forza, tesoro, chiudi quel frigo”.
Sentii una vampata di calore improvviso farsi strada nel mio corpo. “Mamma, ho fame”, ribattei irritato. Da quando ero così facile alla rabbia?
Lei si voltò, piantandosi i pugni nei fianchi con un cipiglio irremovibile. “Basta, Tommy. Non farmelo ripetere”.
Contrassi violentemente le dita, sconvolto all’inverosimile per quell’irrazionale desiderio di colpire la donna che mi stava di fronte.
Non va bene. Devo trattenermi.
La stanza si stava scaldando ancora di più. Era soffocante. Cercavo di respirare profondamente, con l’unico risultato di immettere calore persino nei polmoni: bruciavo dentro. Il rumore della pentola che sobbolliva sul fuoco stava diventando assordante ed ogni particolare di quello spazio ristretto era nitido in maniera dolorosa. E mia mamma stava ancora lì, a fissarmi con quello sguardo così indisponente. Iniziai a tremare, furibondo.
Calma, calma.
Avevo bisogno di uscire. Mi sentivo pressato dall’aria bollente su tutta la superficie della mia pelle, mentre al di sotto serpeggiava un formicolio sordo.
Avevo bisogno di uscire.
Mi bastò pensarlo: in un lampo mi trovai fuori casa, diretto istintivamente verso la foresta. Era buio, ma chissà come ci vedevo perfettamente. Scansai gli alberi con agilità, mentre il tremito che era iniziato in casa continuava, facendosi anche più violento.
Ebbi una scossa più forte, e poi caddi. Precipitai in un nulla senza fondo, nero e privo di appigli. Senza peso, non esistevo più.
Non io.
Qualcos’altro.
Un lupo.


Alba

“ ‘Che vuole da me?’
Questo si chiede il lupo. Quel ragazzo lo turba.
Non lo spaventa (un lupo non ha paura di niente), ma lo turba.”
L’occhio del lupo, Daniel Pennac



Il mondo era diverso.
Tanti, troppi odori. Suoni che si accavallavano nelle mie orecchie. Pelo agitato dal vento. Zampe che raspavano il suolo.
Ero libero, ero selvaggio.
Il gorgoglio dell’acqua ricordò la sete. Le zampe si mossero automaticamente.
E poi ricordai la fame.
Istinto, puro istinto.
Sentivo di essere un lupo, con la stessa certezza con cui percepivo di far parte di un branco, da qualche parte. Nel tremolante riflesso dell’acqua vidi per la prima volta il mio stesso aspetto.
Ero appena nato, eppure ero già cosciente.
Vaghe voci premevano ai margini della mia coscienza; mi impegnai a tenerle fuori, mosso da un qualcosa che non era istinto.
Carattere. Autoconservazione.
Nel preciso istante in cui quelle parole attraversarono il flusso dei pensieri, lo vidi.
Non con gli occhi, questo no. Solo nella mente. Immobile ed isolato, come un albero solitario al centro di una radura, qualcuno osservava.
Era un uomo. Un giovane uomo. Un ragazzo.
Mi fissava. I pensieri irrazionali ed istintivi rallentarono, avvolgendosi intorno a quella sagoma. Eppure non volevo guardarlo. Non mi importava di lui.
I sussurri che premevano sul velo invisibile della mente si alzarono di tono.
Li ignorai ancora, accucciandomi aggressivo.
Non volevo tornare indietro.
Ero libero.

“E, bruscamente, si ferma.
Si siede eretto, proprio davanti al ragazzo.
E anche lui si mette a fissarlo.
Non quello sguardo che vi passa attraverso, no: il vero sguardo,
lo sguardo fisso.”
L’occhio del lupo, Daniel Pennac


Vidi il sole sorgere e tramontare. E sorgere e tramontare ancora. Non contavo le volte in cui la mia ombra era sparita, fusa con le false tenebre della notte.
Ed il ragazzo era sempre lì. Non si era mosso. Ogni volta che mi svegliavo, lui era già lì a fissarmi.
Mi turbava. Il suo sguardo –che non incrociavo mai- aveva il potere di scavare in luoghi della mia mente che mai avevo conosciuto.
Illuminava punti vuoti, tasselli mancanti.
E cominciava a fare male. Il cuore era stritolato da emozioni che non riconoscevo. Esitazioni, dubbi, cadevano tra i miei pensieri come i granelli di una clessidra: lenti ed inesorabili, si accumulavano dando forma ad un’inquietudine più vasta, che mi spingeva a fare quello che, sino ad allora, avevo rifiutato.
Forse quel piccolo uomo aveva le risposte. I suoi occhi celavano segreti a me sconosciuti?
Le voci che mi avevano assillato in ogni istante si erano fatte all’improvviso più insistenti, più pressanti. Dicevano una sola cosa.
Guardalo.
Guardalo.
Guardalo.
Parole scandite seguendo il ritmo del mio cuore, battiti sempre più forti che mi trascinavano nella direzione del giovane uomo. Potevo resistere, ma non volevo, stavolta. Volevo sapere.
Il mio sguardo incontrò il suo.
Per un attimo pensai di impazzire, senza sapere dove guardare davvero.
Ma non dovevo guardare.
Dovevo vedere.
I miei occhi si legarono ai suoi. Precipitavo nella sua pupilla e tutto ciò che mi mancava mi venne restituito.
Tra me ed il ragazzo non c’erano confini. Lui era me, io ero lui.
Ricordai il mio nome. Chi me l’aveva dato. Chi mi aveva curato le sbucciature quando ero caduto sulla ghiaia.
L’uomo che mi scompigliava i capelli, dicendosi orgoglioso di avermi come figlio.
La bambina che mi si aggrappava al braccio, pur di tenermi vicino.
La donna che mi guardava con amore infinito, come se ogni suo respiro dipendesse dalla mia esistenza.
Il volto allegro di una ragazza vivace e bella.
Le barriere mentali si infransero come vetri colorati, illuminando la mia coscienza con un arcobaleno di colori accecanti. Le voci presero consistenza, diventando pensieri ed immagini che fluivano dentro di me liberamente.
Mi raccontavano una storia che fino a poco tempo prima avevo considerato una leggenda. Mi spiegavano quello che ero diventato, la portata delle mie nuove responsabilità.
Mi insegnarono a tornare Tommy.
Persi la nozione del tempo: la prima trasformazione, mi dissero, era estremamente difficile. Eppure ci riuscii.
Mi ritrovai inginocchiato a terra, a fissare le mie mani tremanti. Ogni senso era più acuto; con incredibile chiarezza percepivo di essere circondato da quelli che la mia nuova natura mi aveva imposto come fratelli.
Ho già una sorella, io, pensai confusamente.
Alzai lo sguardo, titubante. La famosa banda, capeggiata da Sam. Erano in sedici, tutti più grandi di me.
La mia attenzione venne attratta immediatamente dall’unica donna del gruppo: la famosa Leah Clearwater. L’improvvisa rottura del fidanzamento –ed il contemporaneo intrecciarsi di una relazione tra sua cugina e l’ex-fidanzato- era stata oggetto di chiacchiere per tre quarti della riserva.
Se ne stava immobile, leggermente discosta dagli altri, con un’espressione tra l’irritato e il mortalmente annoiato. Poi mi notò, e i suoi occhi lanciarono fiamme.
“Che hai da guardare, ragazzino?”, sibilò. Ammutolii, senza sapere che fare. Il suo caratteraccio mi metteva decisamente in soggezione. Il ragazzo più alto –Jacob Black, a meno che la memoria non m’ingannasse- le rivolse un’occhiataccia. “Leah”, disse piatto. Lei si limitò ad incrociare le braccia sbuffando.
Un violento giramento di testa mi colpì senza preavviso, facendomi oscillare paurosamente. Tutto venne avvolto da un ottundimento dei sensi che mi lasciò stordito ed inerme. Prima che me ne potessi rendere conto ero già a casa, sorretto dalle braccia forti di Sam e…Paul, mi pareva.
La porta si spalancò ed uscì mia madre, spettinata e con gli occhi spiritati. Corse verso di me, inciampando nei suoi stessi piedi, e mi lanciò le braccia al collo; sentivo le sue lacrime scorrermi sulla pelle. “Tommy, Tommy, Tommy…”, continuava a ripetere.
Mio padre Sewati arrivò subito dopo. “Grazie.”, disse rivolto ai due colossi. “Ci pensiamo noi, adesso”.
 ***
Mi avevano concesso qualche ora di riposo, prima di informarmi di tutto.
Ero stato via per quasi un mese. Scoprii che mio papà, Quileute da parte di madre, faceva parte del consiglio, quindi era perfettamente informato su quello che mi stava succedendo. Cercai di non arrabbiarmi, memore del fatto che avrei potuto innescare la trasformazione. Si disse fiero di me, tuttavia dalle sue parole traspariva un’angoscia sottile che mi fece comprendere che fino all’ultimo aveva sperato che io non venissi coinvolto.
La mia paura più grande era un’altra. Faticavo ad accettare quello che era successo: l’essere un mostro dotato di istinti e capacità prima di allora impensabili mi sconvolgeva, ma non era tutto lì.
Il problema era Marie.
Leah era la testimonianza vivente che anche le donne potevano essere oggetto di tale maledizione. Da quel poco che ero riuscito a carpire dai pensieri collettivi del branco, avevo saputo che Leah era sterile.
Un vicolo cieco genetico.
Non avrei mai accettato una cosa simile per la mia sorellina, ma quello era il minimo. Non volevo che fosse in pericolo, costretta da istinti primordiali a dare battaglia contro quelle creature dell’orrore che erano i freddi.
Più tardi arrivò mia mamma e mi resi conto, con una stretta al cuore, che era dimagrita moltissimo. Inoltre si muoveva intorno a me con cautela eccessiva, tenendomi lontano il più possibile da Marie. Sapevo cosa stava facendo. Aveva paura che perdessi il controllo, ferendo le persone che amavo. Emily, la fidanzata di Sam, dimostrava che anchequello poteva accadere.
Verso sera, infine, mi rinchiusi nella mia stanza. Mi raggomitolai sul letto stringendo le mani al petto, come a trattenere con una microscopica diga pensieri ed emozioni che minacciavano di straripare, travolgendo l’attentamente costruita razionalità.
Certo, perché il sovrannaturale è l’apoteosi della razionalità, pensai amaramente.
Mi abbandonai ad un sonno agitato, tentando di dimenticare i cambiamenti che stavano attraversando crudelmente la mia vita tranquilla.
  ***
Mi ero rassegnato a passare la giornata seguente in compagnia del branco. Mi avevano aggiornato riguardo al pericolo imminente ed io avevo fatto del mio meglio per fingere di essere concentrato e a mio agio.
In realtà ero continuamente distratto. Il nuovo calore del mio corpo mi sconvolgeva; l’udito, improvvisamente troppo fine, era insistentemente solleticato da suoni nuovi e ricchi di sfumature sconosciute. La carezza dell’erba sulle mie gambe –fasciate solamente da un paio di pantaloncini corti- era più dolce che mai: i miei nuovi sensi mi permettevano di percepire meglio tutto ciò che era la Natura, da sempre amata.
Come se non esistessero più confini.
Potevo percepire le mille e mille parole del vento, il pulsare della vita nella foresta; finalmente potevo sentirmi parte del mondo. Fino ad allora avevo eretto barriere intorno a me, isolandomi testardo nella mia stessa mente. Ma tutto era cambiato, ormai.
La mia forza era più grande, la mia mira ancora più precisa.
Forse essere così non era tanto male.
  ***
Dovetti rivedere radicalmente le mie considerazioni il giorno dopo.
Sapevo che al ritorno a scuola i miei venti centimetri d’altezza appena acquisiti non sarebbero passati inosservati.
Ma tra il saperlo ed il constatarlo c’era una bella differenza. Mi ero rifiutato di andare accompagnato dai membri del branco –i miei fratelli, mi costrinsi a ricordare- che ancora frequentavano la scuola. Eppure cominciavo a pentirmene: la mia nuova altezza sarebbe stata mascherata almeno un pochino da quei giganti.
Come prevedibile tutti gli sguardi conversero su di me, frugando il mio nuovo abbigliamento –maglietta e calzoncini corti, inadatti alla stagione- e il mio nuovo taglio di capelli, decisamente molto più castigato rispetto a prima. Senza contare il fatto che ormai li guardavo tutti dall’alto. Individuai, in mezzo alla folla curiosa, anche il viso di Chitsa, voltato verso di me. Peccato che i miei superpoteri non mi permettessero di aprire all’istante una voragine sotto i miei piedi.
Mi avviai il più velocemente possibile verso la mia classe, prestando attenzione a non rendere la mia corsa rapida a livelli sovraumani. Cercai di non sentire i bisbigli dei pettegoli che avevano me come protagonista: io, che non mi ero mai fatto notare, all’improvviso ero al centro dell’attenzione.
Forse essere così era anche peggio del previsto.
  ***
Ancora una volta, a casa constatai che l’atmosfera era cambiata radicalmente. Mio padre era più cupo in volto, mia madre leggermente più distante. Sapevo che non avevadavvero paura di me: semplicemente non sapeva più come approcciarsi a me. Ero cambiato troppo in fretta per non lasciare strascichi. Marie, per quanto ignorasse il motivo della mia assenza protratta per quasi un mese, non mi ronzava intorno come faceva prima. Proprio nel momento in cui avrei voluto vigilarla più da vicino.
Vedevo mia mamma controllare la sua temperatura nel sonno, ogni notte. Non importava che fosse troppo piccola: la maledizione avrebbe potuto colpire in qualsiasi momento.
I giorni passavano inquieti, pieni di timori, insicurezze, ma anche di scoperte. Per me l’avere un gruppo di amici era qualcosa di totalmente inedito. Degli amici con i quali condividevo un segreto fin troppo grande ed un legame che era radicato in fondo al cuore.
Quei fili sottili che avevo percepito nella foresta, due giorni prima della mia trasformazione, si erano irrobustiti, parte di una rete invisibile ma sempre presente che faceva degli individui un branco.
Non potevo tornare indietro in nessun modo. Potevo solo accettare ed adattarmi come potevo, abbracciando gli aspetti positivi e rassegnandomi a quelli negativi.
Ma avere amici come loro era…forte.
A scuola andava meglio. Certo, ero ancora parecchio chiacchierato –così come gli altri fratelli- ma i meno accaniti avevano smesso di assillarmi con il loro inutile cicaleccio. Persino i professori avevano rinunciato a farmi domande: fino a poco prima avevano insinuato insistentemente che stessi usando steroidi illegali. Se solo avessero saputo!
Eppure c’era uno sguardo che non aveva ancora smesso di seguirmi. Non sapevo se esserne felice o spaventosamente imbarazzato. Chitsa mi osservava. Non uno sguardo che passava attraverso, no: lo sguardo fisso.
Un giorno, uguale a tutti gli altri, la vidi staccarsi dalla massa e camminare verso di me, con una certa decisione. Il mio cuore batteva troppo forte, seguendo il ritmo dei suoi passi. Una marcia impazzita, che scuoteva i miei pensieri. Lei mi guardava. E quello bastava a dare un nuovo senso a tutto.
Era sempre più vicina, ma era da un po’ che riuscivo a vedere la sfumatura rossa sulle sue guance, a sentire il timido martellare del suo cuore.
“Ciao, Tommy”.
Felice o spaventosamente imbarazzato?
Non c’era neanche da domandarselo.

Il sole sorgeva di nuovo.

Avevo sempre amato l’alba. Ero sufficientemente pigro da averla vista davvero solo due o tre volte nel corso della mia vita. Ma c’era qualcosa nell’alba che mi aveva sempre affascinato.
Un momento di transizione, in cui i raggi del sole nascente non sono ancora in grado di illuminare completamente le tenebre della notte appena trascorsa. Le ombre si allungano e si scuriscono, evidenziate dalla luce crescente. L’alba, un gioco di chiaroscuri che è promessa di un giorno più luminoso, incapace però di nascondere i segreti ed i timori del buio.
La mia vita era così. Simile a tante altre, diversa da tutte.
Travolta da un’alba inaspettata.

Nessun commento:

Posta un commento

Potete scrivere qualunque cosa, se usate un linguaggio civile. Il contenuto per adulti non si porta dietro la volgarità nel mio blog. Sono graditi soprattutto commenti di tipo letterario e stilistico.